Tubo rosa: la strana meraviglia architettonica ove correvano le navi berlinesi

Un punto chiave nella comprensione del post-modernismo è che tale corrente non deriva dalla forzatura di alcun tipo di maniera implicita di dar forma alle cose. Piuttosto che il sovvertimento di un modello, il suo superamento, ovvero l’adozione di un sistema per dare risposta alle necessità di un mondo sottoposto a velocissimi cambiamenti. Così nel 1900, il kaiser Guglielmo II di Germania e Prussia si trovò di fronte ad un progetto per la costruzione di un Istituto di ricerca per l’ingegneria idraulica e la costruzione navale, da posizionare in corrispondenza della piazza dei cavalli imperiali. Ma negando il suo permesso, famosamente, disse: “No. Il mio maneggio rimane.” Tre anni dopo, molto più appropriatamente, esso trovò posto comunque, lungo il canale Landwehr sulla Müller-Breslau-Straße. Qui, tra una serie di laboratori di mattoni con piscine artificiali interne, gli addetti alla progettazione cominciarono a impiegare il metodo sperimentale prima di approvare la possibile funzionale delle diverse imbarcazioni imperiali. Sessantaquattro anni dopo, con l’ampliamento del canale, il sito si trovò sopraelevato entro gli angusti confini di un’isola artificiale. Tanto che fu deciso, in tale occasione, di coinvolgere l’ingegnere Christian de Boes, che previde a tal proposito l’installazione di un cosiddetto tubo di circolazione, imponente elemento grazie al quale fosse possibile simulare lo scorrimento di grandi masse d’acqua e la conseguente generazione di un moto ondoso. L’estetica esterna, per ovvie ragioni, non era al centro delle sue preoccupazioni e fu per questo che, ancora una volta, le autorità al comando mancarono di nuovo di approvarlo, decidendo piuttosto d’indire il concorso del 1968 per il coinvolgimento di architetti di fama. O quanto meno, in grado di tirare fuori soluzioni che potessero definirsi visualmente appaganti. A questa seconda categoria apparteneva dunque Ludwig Leo, attivo nel settore fin dal termine della seconda guerra mondiale ma che, forse in funzione delle sue idee d’avanguardia, aveva avuto fino a quel momento l’occasione di portare termine una quantità limitata d’edifici. Tutti grosso modo rispondenti ad un approccio assai raro per l’epoca, di anteporre la funzione al rispetto dei modelli, creando al tempo stesso dei nuovi metodi coerenti per erigere e determinare gli spazi abitativi o dotati d’altre funzioni. Mai tanto insolite, né così determinanti; le ragioni per cui, probabilmente, l’Umlauftank 2 (“Serbatoio di Scorrimento”) viene ad oggi considerato il suo capolavoro assieme alla vicina Scuola di salvataggio in mare (DLRG) con il suo iconico ascensore inclinato per immagazzinare le scialuppe in inverno. Laddove campeggiava in questo caso una svettante scatola blu cielo, per lo meno al momento della sua inaugurazione, circondata da un contorto serpente del colore di un bouquet a San Valentino, degno d’ispirare intere generazioni di pittori surrealisti metropolitani…

Ancora la città di Berlino dunque, ed ancora uno dei suoi distintivi edifici tecnici, diretta risultanza di quello stereotipo non totalmente campato in aria, secondo cui una nazione dove i grandi ingegneri vengono tenuti in considerazione pari o superiore a quella degli artisti, il risultato sia il mantenimento di canoni esteriori particolarmente distintivi e potenti. Ragion per cui l’Umlauftank 2, così numerato in funzione di una versione preliminare sensibilmente sottodimensionata, non più esistente, riesce ad essere ben più di una scontata stravaganza, bensì l’effettiva messa in opera di parametri speciali, dedicati all’ottimo coronamento del progetto di partenza. Sottoporre le imbarcazioni ad un flusso sperimentale, d’altra parte, non è un processo semplice poiché richiede in primo luogo la generazione del moto simulato in una posizione sottostante alla vasca, pena la generazione del fenomeno di cavitazione, capace di arrecare danni significativi agli scafi. Ecco perché l’edificio berlinese, dedicato a navi della lunghezza di fino 9 metri e perciò il più grande in assoluto tra i circa 40 della sua categoria nel mondo, necessitava di raggiungere un’altezza equivalente a quella di un palazzo di cinque piani, con il tubo caratterizzante di una lunghezza totale di 120 metri. Difficile pensare di poter nascondere, nello skyline cittadino, un struttura di simili proporzioni ed è per questo che l’architetto Ludwig Leo decise, piuttosto, di renderla fastidiosamente accattivante. Mediante l’adozione non soltanto dei colori sopra menzionati, ma una disposizione con il tubo a vista che avvolgeva il cubico laboratorio quasi totalmente privo di finestre. Creando l’illusione di un castello fantastico, costruito dalla fervida creatività del cosiddetto fanciullo interiore. Eppure non per questo privo delle potenzialità richieste, potendo muovere grazie all’elica a passo variabile da 25 tonnellate situata nel punto ristretto del tubo fino a 3.300 tonnellate d’acqua per tutto il tempo necessario a raccogliere i dati.
Verso la fine degli anni ’80 dunque, con l’imporsi delle simulazioni informatiche avvenne quello che nessuno avrebbe mai potuto prevedere. La necessità di condurre dispendiosi esperimenti pratici passò in secondo piano, con una gestione del laboratorio sul Landwehr, dato in gestione nel frattempo all’Università Tecnica di Berlino, dotato di un personale sempre più ridotto e in certi periodi addirittura abbandonato. Mentre il trascorrere del tempo, inarrestabile, continuava ad attaccare le pareti esterne, fino all’antiestetico scolorimento della caratteristica verniciatura ed il distacco della schiuma di poliuretano usata per isolare termicamente il flusso dell’acqua all’interno. Allorché venne deciso, in corrispondenza dell’anno 2012, di coinvolgere la fondazione per la tutela dei beni culturali Wüstenrot per un’estensivo progetto di rinnovamento, destinato ad essere portato a termine dall’architetto Hans Günter Merz.

Con uno stanziamento di fondi pari complessivamente a 3,5 miliardi di euro la serie d’interventi destinati a scongiurare lo smantellamento fu complessa al punto da richiedere ben tre anni, in parte dedicati a procurare gli specifici e difficilmente reperibili materiali utilizzati della prima metà del Novecento. Nuovamente impermeabilizzato, consolidato strutturalmente, il laboratorio ha visto nel frattempo mantenuta intatta l’estetica altrettanto distintiva dei suoi spazi interni, compresa la vernice verde utilizzata per i muri del laboratorio stesso, che ha ben presto riaperto i battenti. Non più al fine di condurre dei progetti commerciali su larga scala, bensì nel settore trasversale degli esperimenti scientifici, elaborati e messi in atto dai ricercatori dell’Università in un regime di sostanziale liberta accademica d’espressione. La stessa impostazione mentale impiegata, a suo tempo, per permettere la costruzione di un qualcosa di tanto stupefacente. E che probabilmente soltanto in un luogo come Berlino, avrebbe potuto costituire l’ispirazione di princìpi architettonici destinati a sovvertire totalmente le imposizioni dei nostri trascorsi. Sostituirle, addirittura, con il grigio e ponderoso cemento del Brutalismo.

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