L’imprescindibile tendenza a diversificare, che deriva dalla fantasia fattiva degli umani, non può prescindere da certi crismi ripetuti che compaiono immutati anche tra contesti culturali particolarmente distanti. Così la necessità di certi popoli di far emergere, se stessi, la propria famiglia e percezioni, al di sopra delle prospettive di chi ascende o trasferisca i propri avere da un ciglio montano all’altro, ha in più momenti e situazioni ricreato la presenza di quel tipo d’edificio preminente ma compatto, sostanziale equivalenza abitativa di un albero o antica colonna. Vedi le fortezze georgiane dei clan dei Vainachi, come anche le torri circolari costruite dagli Irlandesi. Eppure ciò in tanti sembrano voler dimenticare, nei trascorsi secoli come l’epoca corrente, è che anche in prossimità del tetto del mondo, l’elevato e tormentato Tibet, sia vissuta una categoria di grandi costruttori. Che nel tentativo di proteggere il proprio territorio avito, ma anche o soprattutto primeggiare tra i propri vicini, scelsero di mettere una pietra sopra l’altra. E poi uno strato successivo, ancora e ripetutamente raggiungendo varie volte l’altezza massima di 60 metri. Finché i propri interessi ed i domini territoriali non fossero salvaguardati, per quanto possibile, da una delle forme primordiali del concetto di fortezza. Senza l’uso d’ingombranti mura, barbacani o fossati, poiché dopotutto siamo in luoghi dove la conformazione stessa del terreno risultava successivamente accidentata da ostacolare un’armata. Ma di chi fosse quest’ultima, ai tempi della prima costruzione, possiamo unicamente tentare ipotesi del tutto prive di riferimenti adeguati.
Ciò perché le torri himalayane, in quantità complessiva pari a circa 250, per quanto diffuse nelle regioni oggi cinesi di Kham, Qiang, Kongpo e Danba, appaiono essere state dimenticate per lungo tempo dagli stessi discendenti di coloro che le hanno create, in assenza di fonti scritte in grado di fornire un chiarimento sul come, cosa e perché di tali ponderose installazioni ancestrali. Per la poca affinità di questi popoli con la parola scritta, ma anche un possibile e potenziale progetto di sovrascrittura culturale, iniziato nel XVIII secolo a seguito delle dispendiose campagne di espansione territoriale messe in atto dall’imperatore Qianlong (r. 1735-1796). Durante cui oltre 600.000 uomini furono fatti avanzare fino al cuore dell’antico regno montano di Gyalrong alias “Valle della Regina” ove si diceva che fin dai tempi remoti governassero esclusivamente le donne. Ma non prima di aver fatto costruire, poco fuori Pechino, delle repliche fedeli delle torri virtualmente inespugnabili che i suoi soldati si sarebbero trovati ad espugnare…
Spesso definite “misteriose” o “inspiegabili” le torri himalayane vengono per la prima volta menzionate in letteratura verso la fine della dinastia Ming (XVII secolo) per poi tornare nuovamente in quello successivo nelle cronache coéve delle battaglie della sopracitata campagna di Jinchuan, in cui offrirono in un primo momento una valida contromisura contro l’avanzata dell’esercito dei Qing. Almeno finché il sesto Imperatore, stanco di vedere il proprio esercito decimato dagli arcieri, non decise d’intensificare il commercio con i portoghesi procurandosi una quantità maggiore di cannoni di manifattura europea. Il che non avrebbe portato, sorprendentemente, alla demolizione sistematica di tali edifici bensì un letterale aumento di numero, man mano che i cinesi avanzavano e riparavano o persino replicavano le fortificazioni danneggiate per farne a loro volta buon uso.
Dal punto di vista strutturale, siamo di fronte a costruzioni di notevole perizia soprattutto in funzione del terreno tutt’altro che pianeggiante, ma anche i frequenti terremoti che storicamente hanno sempre colpito la regione di appartenenza. Tanto che le torri, a pianta quadrata, di croce o nei casi più imponenti dai molteplici contrafforti a forma di stella, presentavano un’insolita configurazione strutturale con le pareti ispessite nella parte inferiore, rinforzate da numerose travi lignee flessibili in grado di assorbire in parte le vibrazioni geologiche ricorrenti. Capaci di resistere anche al passaggio del tempo, laddove le scale ed altre strutture interne, anch’esse in legno, ormai sono per lo più un distante ricordo.
Una documentazione di provenienza occidentale non compare d’altronde fino alla fine del XIX secolo ed inizio del Novecento, con brevi menzioni da parte degli esploratori Isabella Bird e Frank Kingdom-Ward, entrambi pronti ad ammettere come nessuno conoscesse l’effettiva storia di tali edifici. Un tardivo tentativo d’indagare in materia, invece, risale al 1982 da parte dell’etnologo e tibetologo Michel Peissel e soprattutto alla sua collega scienziata Frédérique Darragon, che recandosi in zona per raccogliere dati sullo stato di conservazione del leopardo delle nevi, finì invece per interessarsi alle torri, da cui realizzò un libro e un documentario. In un’epoca in cui l’accesso alle regioni himalayane era fortemente ristretto ed al tempo stesso, né la popolazione locale né le forze d’occupazione cinesi sembravano avere risorse da investire sullo studio della storia pregressa di quei distretti. A lei dobbiamo un primo tentativo di approfondimento, coadiuvato da molteplici interviste inconcludenti e conseguenti ipotesi mirate a una disanima dei pochi spunti d’indagine a disposizione. Nonché in modo assai rilevante, la datazione al carbonio 14 sulle parti lignee degli edifici tra il 2000 e il 2003, permettendo di acquisire una datazione estremamente approssimativa tra il 200 e il 1400 d.C. Il che avrebbe collocato l’emersione delle fortezze in parallelo all’antica Via del tè e dei cavalli, la chamagudao, usata per gli estensivi commerci tra il Tibet e la Cina imperiale. Il che avrebbe fatto di esse una sorta di punti di scambio e posti di guardia contro i banditi a vantaggio degli affari dei mercanti, ancor prima di renderle le vere e proprie strutture militari in cui la storia avrebbe finito per trasformarle.
Poiché l’istinto delle moltitudini, come sappiamo, è sempre quello di primeggiare o in qualche modo emergere dalla percepita mediocrità situazionale. Il che concesse ai nostri insigni predecessori, più di un pretesto per esporre la propria facoltà di edificare monumenti in grado di affrontare il tentativo dei contemporanei, ma non sempre quello del passaggio inarrestabile dei tempi ulteriori. Giacché ad oggi, la stragrande maggioranza delle torri giace in stato di essenziale abbandono, con necessità evidenti di estensivi e dispendiosi restauri. A vantaggio dei quali la stessa Darragon si è impegnata per diverse decadi, nel tentativo di far riconoscere la sua “scoperta” come patrimonio UNESCO, ancor prima che essa possa trasformarsi in attrazione turistica per il passaparola di Internet. Con le conseguenze che noi tutti possiamo facilmente tendere ad immaginare. Dopo tutto, luoghi ameni non rimangono eccessivamente a lungo tali, una volta che vengono frequentati dalle odierne armate degli utilizzatori di macchine fotografiche e telefoni cellulari. Contro cui non esistono fortezze troppo alte. Né salite successivamente impervie oltre cui raggiungere la vetta ambita della visibilità imperitura.