La principessa dentro il nucleo dell’agrume di pietra: una storia d’amore indiana

Nei distretti forestali del subcontinente settentrionale, fin sotto le pendici dell’Himalaya, campeggiano presenze vegetali dall’aspetto e le prerogative misteriose. Alberi fronzuti, la cui ombra si rispecchia nel sostrato di leggende o miti popolari, le cui radici affondano in credenze religiose ancor più antiche delle nazioni. E trascorrendo anni, o generazioni alla ricerca di qualsiasi cosa diverrà possibile trovarla. Persino il volto della persona destinata ad essere amata. Nel ciclo lungo dell’esistenza delle anime, fondato sul sistema religioso delle reincarnazioni, ricorre l’idea che spiriti affini possano tornare ad incontrarsi attraverso vite successive, convergendo ed attendendosi a vicenda ogni qual volta giungono nella dimensione interstiziale tra i mondi. Nel modo lungamente dimostrato, volendo fare un esempio, dalla tormentata vicenda della principessa Belbati, per come figura in una fiaba collocata da fonti antropologiche nella regione dei Santal Pargana. Strettamente interconnessa ad una varietà vegetale effettivamente esistente, tenuta in alta considerazione nella medicina tradizionale di questi paesi.
C’era in quel tempo remoto, il giovane Lita, ultimo di sette fratelli, deriso dai suoi famigliari per la protratta incapacità di trovare moglie. E c’erano tre saggi monaci, che gli diedero istruzioni di risolvere il problema recandosi in un giardino montano, protetto ferocemente da tre membri della razza demoniaca dei rakshasa. “Cogli il frutto più grande che ti riesce di trovare, e riportalo da noi.” Dissero costoro. Ma il ragazzo, emergendo dai cespugli ed afferrando un grosso pomo dall’aspetto legnoso, venne ucciso e divorato dai mostruosi guardiani. Allorché i monaci mandarono un corvo a recuperarne gli escrementi, da cui resuscitarono il ragazzo con in mano il globo verde rame. “Adesso aprilo vicino al pozzo che si trova in fondo alla valle.” Spiegarono di nuovo. Ma Lita, nella fretta di seguire le loro istruzioni, inciampò e cadde, rompendo quella buccia resistente e subendone di nuovo le conseguenze. Poiché al verificarsi di un potente lampo di luce, accaddero due cose allo stesso tempo: comparve sulla Terra la divina principessa Belbati. Giusto mentre il suo promesso sposo, purtroppo, moriva per la seconda volta.
Prima di esplorare il seguito della vicenda, sorge lecita l’essenziale domanda: da cosa era rappresentato esattamente, in questo caso, il prototipico frutto proibito? Se l’aveste chiesto ai naturalisti britannici che per primi si trovarono a classificarlo in epoca vittoriana, essi vi avrebbero risposto senza esitazioni: “Una mela”. Ma in quell’epoca praticamente ogni cosa veniva ricondotta a dei modelli familiari, particolarmente nel settore delle antonomasie fruttariane. Non sempre a proposito. Giacché il frutto di bael o l’Aegle marmelos, per usare il suo nome scientifico moderno, è piuttosto una pianta membra della famiglia delle rutacee, biologicamente confinante con il mondo dolce-aspro dei non meno utili o diffusi agrumi. A ben guardare il suo corposo e beneamato prodotto commestibile, in effetti, esso potrebbe assomigliare vagamente a un pomelo…

Ma perché, esattamente, la principessa di Belbati risiedeva all’interno di un frutto di bael, tra le molte alternative possibili o più diffuse? La risposta va cercata nell’importante ruolo filosofico e religioso attribuito alla pianta d’origine, considerata un’emanazione materiale della Dea dell’abbondanza Lakshmi o la prima consorte di Shiva, Sati. Nonché un simbolo dello stesso Essere Supremo in funzione delle sue foglie trilobate, idealmente capaci di rappresentare il suo tridente. Laddove l’esperidio in questione, in grado di raggiungere le dimensioni approssimative di un melone d’inverno, appare impervio ad ogni tipo d’interpretazione finché non ci s’industria laboriosamente ad aprirlo, con una metodologia non troppo diversa da quella accidentalmente impiegata dal giovane protagonista della storia di Belbati: un forte urto, vibrato grazie all’utilizzo di un martello o altro implemento. Al che sarà possibile crepare la buccia legnosa, per accedere tra semi mucillaginosi ad una serie di emisferi dalla polpa dolciastra, il cui sapore è stato descritto come simile a una marmellata mista di limone e tamarindo. Apprezzati in modo particolare nella cucina bengalese ed utilizzati come ingrediente di una diffusa bevanda estiva, il Bela pana, prodotta con l’aggiunta di latte, zucchero, pepe e ghiaccio, tali frutti figurano inoltre nelle antiche pratiche medicinali, secondo cui avrebbero costituito la panacea di un vasto ventaglio di afflizioni. Tanto che ancora oggi è possibile trovare una pletora di studi più o meno scientifici, mirati ad elogiare le presunti doti anti-carcinogeniche, anti-diabetiche, anti-ossidanti etc. del ponderoso globo citrino, ricco di composti vitaminici e la cui prerogativa indubbiamente utile è quella di crescere in regioni dove la coltivazione agricola di piante alternative sarebbe complessa. Non manca, a tal proposito, l’idea che il Bael potrebbe costituire un tipo di super-cibo nella società futura, per supplire alle carenze cui potrebbe andare incontro la popolazione in continua crescita del subcontinente indiano.
Non che tutto questo fosse in alcun modo al centro dei pensieri della principessa, nel momento in cui si palesò nel mondo accanto a un pozzo mistico e le ossa carbonizzate del suo promesso sposo. Allorché scorgendo sule sentiero una ragazza di una casta inferiore, le chiese assistenza per calare gli umili resti nell’acqua in cui avrebbero potuto ritornare in vita per la terza volta. Ma quest’ultima, scorgendo l’opportunità di migliorare la sua situazione, la tradì e spinse di sotto, causandone la morte pressoché istantanea. Quindi al ritorno tra i viventi di Lita, si presentò a lui come la moglie profetizzata, sposandolo ed andando a vivere con lui e la sua famiglia.

Segue un periodo d’infelicità per tutte le parti coinvolte, visto come Lita e la falsa principessa non avessero alcun tipo di affinità inerente e non riuscissero per questo a generare figli. Finché per il principio karmico del contrappasso terreno, la divina Belbati non fu trovata nuovamente all’interno di un nuovo frutto dell’albero di Aegle marmelos, colto non a caso da quello stesso consorte predestinato. Se non che la moglie perfida che aveva assunto la sua identità, accusandola di stregoneria, convinse lui a portarla in una comunità di membri della casta itinerante dei Ghasi, che senza esitazioni decisero di metterla a morte per il suo presunto capovolgimento delle leggi di natura. Ma la principessa rediviva, prima di morire nuovamente, disse al suo amato: “Dopo che tutto sarà finito, prendi le mie mani e piedi e piantali nei quattro angoli della tomba”. Egli così fece e proprio in quel punto, per intercessione degli spiriti supremi, sorse un maestoso palazzo. Un giorno Lita mentre andava a caccia lo trovò e fece il suo ingresso tra le immense sale. Dove, come se nessun fatto fosse precedentemente intercorso, ritrovò la donna che avrebbe dovuto amare.
Segue la severa punizione di colei che aveva compromesso il fato, in base alle usanze specifiche di colui o coloro che di volta in volta interpretarono l’ancestrale vicenda. Poiché il rapporto tra uomini e donne, in base alla stragrande maggioranza delle religioni antiche, non è mai una questione del tutto privata, ma richiede l’essenziale partecipazione ad un sistema di cause ed effetti concatenati vicendevolmente. Per cui soltanto le forze divine del Cielo e della Terra, o chi per loro, possono decidere un sentiero alternativo. Con molte inevitabili, spesso talvolta tragiche conseguenze. Ma non certo destinata a tutti, la rara occasione di fagocitare il leggendario agrume dell’oblio, per far ritorno ad uno stato originario di oggettività fuori dal tempo.

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