Un mondo ad alta quota può rispondere a sistemi e regole di un tipo differente, priorità dettate dal bisogno di adattare il clima alle esigenze di una società stanziale interconnessa. Principe tra questi, la una fonte idrica abbastanza sostanziale sia nel campo dell’agricoltura che l’allevamento, per non parlare della semplice sopravvivenza di comunità al di sopra di una quantità sparuta di persone con le loro intere famiglie. Ecco perché le strutture collettive, assieme a tradizioni e usanze di particolari siti peruviani sono costruite sulla base di far fronte alle necessità del quotidiano, incluso in tal senso l’antico culto religioso della Madre Terra, che in simili luoghi prende il nome di Pachamama. Questa è una storia proveniente da una delle innumerevoli comunità sudamericane identificate col toponimo di Santa Fe, stavolta volta situata presso la sezione peruviana della cordigliera andina, nella regione meridionale di Puno. Dove i locali affrontano, nella maniera qui esemplificata dal portale ecologista Mongabay, un problema significativo che continua a peggiorare da generazioni: la siccità. E potrebbe anche sembrare strano che in luogo battuto dai forti venti provenienti dal Pacifico, tanto distante dai deserti e le praterie aride dell’Argentina, uno dei problemi da patire sia proprio la sete, finché non si prende nota in merito ad una delle inesorabili derive messe in atto dai processi del mutamento climatico in atto nel nostro pianeta: lo scioglimento irreversibile dei ghiacciai e con esso, la scomparsa dei molti ruscelli e torrenti, che in estate tratteggiavano percorsi chiaramente noti ai fondatori di villaggi come quello in oggetto. Il che ha portato, specialmente nell’ultima decade, a gravi privazioni per questa gente, oltre al decesso in più capitoli di parti rilevanti delle loro greggi di alpaca, animale niente meno che fondamentale per la salvaguardia di quel distintivo stile di vita. Circostanze tristemente note in molte zone limitrofe (il video cita anche il villaggio di Apu Ritipata, sulle pendici dell’omonima montagna dell’altezza di 5.000 metri) ma per arginare le quali una preziosa risorsa collettiva viene utilizzata come funzionale contromisura: l’approccio lungamente noto dello Yarqa aspiy, un rituale, una festa ma anche una corvèe degli uomini e donne fisicamente abili, ad intervenire sul sistema ereditato di serbatoi d’altura per l’acqua piovana, che prende il nome di qochas. Ma questo non prima di mettere in scena, come da preziosa consuetudine, le danze e le preghiere all’indirizzo della Dea…
La sequenza d’apertura mostra, per espandere sul tema della didascalia che parla unicamente di un “rituale Quechua” non meglio definito, alcuni momenti tratti dalla festa estiva dello Yaku Raymi, un tipo di aspiy finalizzato principalmente alla protezione delle acque ed il richiamo della pioggia, mediante l’implementazione di un preciso rituale. Che vede gli anziani o le persone di maggior prestigio di un villaggio organizzare l’evento, arricchito dal richiamo di musici e danzatori provenienti da fuori, oltre alla procura di una ricca serie di offerte. Beni alimentari e bevande, primariamente, che al termine della celebrazione e con l’inizio del momento di maggior introspezione spirituale, secondo un culto animistico ereditato probabilmente dalla civiltà degli Incas vengono offerte a Pachamama in prossimità di uno specchio o un corso d’acqua. Affinché ella, nella sua sapienza, possa successivamente guidare i gesti dei lavoratori incaricati del restauro e pulizia dei sistemi di approvvigionamento e distribuzione idrica, che possono includere dighe tradizionali, canali dalla labirintica dislocazione e i già citati qochas, bacini antropogenici o naturali, dove si dice che la classe sacerdotale dei tempi pre-colombiani fosse solita osservare il riflesso degli astri notturni, nel tentativo di elaborare una precisa divinazione. Così da prevedere molti disastri ma non l’ultimo, che sarebbe poi la venuta dei coloni europei seguìti dal consueto collettivo di ecclesiastici con bibbie e croci dedicate all’evangelizzazione. Un processo che portava qualche aspetto utile, come l’insegnamento a leggere e scrivere, ma anche il sistematico smantellamento degli idoli e le tradizioni legate ad essi, ovvero il complesso tessuto sociale responsabile della salvaguardia degli antichi stili di vita. Allorché villaggi come quello di Santa Fe, privati di un pretesto per effettuare la manutenzione delle infrastrutture ereditate, si trovarono gradualmente a mancare di un fondamentale ausilio per il mantenimento dei propri pascoli e campi, nel progressivo aumento di uno stato di disagio destinato a prolungarsi fino all’Era presente. Tutto ciò mentre le alterazioni ambientali, compromesse a causa d’innumerevoli fattori ormai fuori dal nostro controllo, esacerbavano le situazioni pendenti, fino all’imporsi di contingenze disdicevoli come quella ampiamente discussa dai locali intervistati nel video di Mongabay.
Una visione che offre, come principale spunto d’analisi, una domanda imprescindibile alla gente del mondo: che cosa può fare fondamentalmente un uomo della società moderna dei bassopiani, onde prevenire questo corso inarrestabile dell’entropia sociale? Tutto e niente, al tempo stesso: risparmiare acqua, corrente elettrica. Acquistare se possibile dei prodotti dalla provenienza etica. Gettare sguardi di profonda disapprovazione all’indirizzo delle imponenti multinazionali ormai al di sopra delle leggi vigenti. Forse, addirittura, sostenere ed eleggere una classe dirigente in grado di subordinare di tanto in tanto l’immediata crescita del capitale politico o pecuniario, all’elaborazione di un piano che vada oltre il termine del proprio mandato. O almeno il mero “concetto” di questo. Ma non esageriamo. Per parafrasare un celebre film britannico: “Che cosa hanno mai fatto [gli Incas]?” A parte le strade in territori inaccessibili, la costruzione di opere monumentali megalitiche, i ponti di corda, l’agricoltura sui terrazzamenti sopraelevati, la costruzione di un impero fondato sui condivisibili valori del sacrificio umano e lo schiavismo delle popolazioni sconfitte in battaglia… Ah, e Machu Picchu. Che cosa hanno mai FATTO gli Incas, per noi?”