In un mondo in cui le divisioni tra i popoli sembrano essere ancora una volta diventate un’arma politica nelle mani dei potenti, non serve guardare eccessivamente indietro per comprendere le conseguenze a medio e lungo termine di uno degli approcci politici più reiterati nel corso della storia antica, medievale e moderna. Poiché è indubbio che la creazione di barriere culturali, l’istigazione di diffidenza verso il diverso, possano servire a cementare l’unità tra i detentori di un parametro o membri di un particolare strato sociale. Giusto mentre demoliscono di pari passo il delicato sistema d’ingranaggi interconnessi, che gli economisti ci hanno insegnato a definire come il Mercato Globale. Uno sforzo collettivo di natura spontanea, che guidato in molti modi dall’istinto, avvicina i più desiderabili traguardi del progresso umano. Senza rifugiarsi necessariamente oltre lo scudo dissonante di grida d’allarme contro gli ideali “nemici”. Eppure addirittura quando l’impero dal rosso stendardo costituiva il grande spettro avverso all’Occidente, all’apice dei delicati anni ’60, qualcosa fu prodotto nel quartiere moscovita di Ljubercy, che avrebbe portato una particolare frangia del mondo dell’aviazione a voltarsi. Scrutare con profonda attenzione e si, persino giungere a ordinarne multipli esemplari per le proprie forze di polizia, le grandi aziende agricole e gli ospedali. Tre settori ben diversi ma non sempre o necessariamente contrapposti. Soprattutto nel bisogno reiterato di librarsi in aria, per assolvere dei compiti facenti parte del quotidiano anche in Europa e negli Stati Uniti al di là del “muro”. E chi, meglio di lui, avrebbe potuto aiutarli? L’eccelso ingegnere Nikolay Ilyich Kamov, nato nel 1902 ad Irkutsk, con a quel punto più di mezzo secolo d’esperienza nella progettazione di elicotteri ed un particolare approccio alla realizzazione di questi apparecchi. Essenzialmente esemplificato dall’impiego dell’insolito rotore contro-rotativo, in cui due eliche sovrapposte di pari dimensione, piuttosto che una principale coadiuvata da quella piccola situata sulla coda, si occupavano di generare una spinta verso l’alto mantenendo nel contempo stabile il velivolo durante l’utilizzo. Una soluzione già vista, grazie al suo contributo, in molti contributi all’aviazione militare e civile di quegli anni, tutti dislocati a punti estremi dell’asse contrapposto tra costi, dimensioni e complessità d’impiego. Al che, con l’affermarsi di nuovi criteri dell’impiego di mezzi volanti nei settori citati poco sopra, dovette sembrare del tutto naturale coinvolgere il suo premiato bureau nella progettazione di un nuovo approccio compatto e utilizzabile in un vasto ventaglio di situazioni, che potesse rientrare nella categoria di elicottero di utilità leggero. Dopo un periodo di progettazione e sperimentazione andato tra il 1965 e il 1970, gli addetti ai lavori della Kamov giunsero alla convergenza di diversi criteri creativi atipici, per presentare ai committenti governativi qualcosa di assolutamente fuori dal coro, il cui semplice numero di serie, con tipico approccio all’anonimato dell’Era sovietica, sarebbe stato semplicemente Ka-26…
Da un punto di vista meramente descrittivo siamo di qui di fronte dunque a un’aeromobile della lunghezza di 7,25 metri ed un peso massimo al decollo di 3,25 tonnellate, spinto in aria da due motori a pistoni di tipo radiale Vedeneyev M-14V-26, da 325 cavalli e 9 cilindri ciascuno. Ma non si può credere di avere un quadro completo finché non si menziona il modo in cui gli impianti in questione fossero stati montati a distanza ragguardevole dall’abitacolo per favorirne il raffreddamento, quasi come si trattasse d’improbabili occhi scrutatori. Il che, assieme all’altezza del carrello, la coda a forma di T con doppio alettone verticale e la quantità, nonché dimensione dei rotori creava l’illusione di trovarsi di fronte a un imponente insetto di metallo. Concepito al fine di poter decollare ed atterrare dal rimorchio posteriore di un grosso camion, onde favorirne l’impiego in zone rurali o lontano dagli aeroporti, il Ka-26 vantava inoltre un efficiente sistema modulare, in cui dietro l’abitacolo per due persone poteva essere inserito un elemento cuboidale con all’interno fino a sei posti a sedere, oppure tre con la barella per un paziente o ancora una capiente stiva per il trasporto di medicinali o altri oggetti. Oppure semplicemente non venire montato, per l’impiego come gru volante, o ancora rimpiazzato da un serbatoio di pesticidi, da irrorare in base alle necessità del momento. Benché l’elicottero fosse in effetti tutt’altro che veloce, data la sua insolita configurazione aerodinamica che gli permetteva di raggiungere appena i 170 Km/h, la sua rapidità nella risposta ai comandi e capacità di spinta erano ai vertici della sua classe, ponendo le basi del superamento nella decade successiva di cinque record mondiali, tra cui la massima altitudine raggiunta da un elicottero leggero (5.330 metri) e la velocità di salita per i primi tre chilometri di quel tragitto (8 minuti e 51 secondi). Particolare misure, tra cui l’aumento della flessibilità dei rotori, gli concedevano inoltre una stabilità superiore alla media degli altri apparecchi contro-rotativi, scongiurando largamente i principali rischi per questa classe dell’effetto suolo e l’impatto rovinoso tra pale sovrapposte.
Entro l’inizio degli anni ’70, prodotto in diverse varianti adibite tra le altre cose al trasporto, il servizio sanitario, il pattugliamento forestale e il salvataggio via nave, il Ka-26 sembrava dotato di tutte quelle caratteristiche necessarie a intavolare dei processi aziendali d’esportazione. E fu così che in breve tempo, dopo l’adozione in primo luogo da parte delle forze di polizia rumene e ungheresi, oltre a quelle della Repubblica Federale Tedesca, l’elicottero iniziò a ricevere certificazioni per l’impiego anche nei paesi dell’Europa Occidentale. Sottoposto a prove approfondite d’impiego, il suo utilizzo fu dunque abilitato in Polonia, Svezia e Germania. E addirittura, in una casistica senza precedenti in quel vigente clima geopolitico, per i distanti e contrapposti Stati Uniti.
Senza particolari incidenti durante il suo ciclo di produzione durato fino al 1985, il piccolo capolavoro della Kamov venne prodotto in un gran totale di 816 esemplari, molti dei quali continuano ad essere impiegati ancora oggi ad oltre quattro decadi dalla loro immissione sul mercato. E sebbene, almeno a giudicare dalla quantità di fumo generato nei video reperibili su Internet del momento dell’accensione, l’impatto ambientale che comportano potrebbe risultare superiore a quello di una quantità doppia di velivoli più moderni, nessuno potrebbe dubitare del loro fascino eclettico ed al tempo stesso rappresentativo di un’epoca particolare del nostro passato. Inteso come quello di una collettività indivisa, intenta ad osservare i risultati pratici ancor prima dell’immagine di un rigido e immutabile protezionismo nazionalista. In cui ogni singola cosa, anche quando finalizzata all’assolvimento di un compito esclusivamente tecnologico, tende sempre orbitare attorno ai colori della stessa stolida bandiera. Anche a discapito della praticità, ingegno e convenienza che talvolta, possono giungere da un contesto ulteriore.