Prima dell’introduzione del metodo scientifico, in assenza di strumenti tangibili e mentali per classificare il mondo, il principale metodo per farlo proveniva dalla disciplina trasversale della filosofia. Speculazioni elaborate da persone molto intelligenti, che operavano mediante i metodi spesso in conflitto della logica e il sentito dire. Uno degli argomenti entro i quali, tuttavia, i due pilastri di questa tipologia di conoscenza si trovavano a convergere poteva essere individuato nel rapporto sempre tormentato tra uomo e natura. E la maniera in cui taluni esseri viventi, soprattutto quando appartenenti a magnitudini di scala sensibilmente inferiori alla nostra, tendevano a fare la loro comparsa nelle circostanze e nei momenti più inaspettati. Lascia della melassa a terra, dicevano i presocratici, ed ivi nasceranno in modo totalmente spontaneo delle formiche. Sacrifica dei tori e dalle loro carcasse nasceranno le api. Ma fu Aristotele in particolare, nella sua Τῶν περὶ τὰ ζῷα ἱστοριῶν (Storia degli animali) del IV sec. a. C. a descrivere per primo la presenza della vita là dove chiunque, fino a quel momento, aveva creduto che ogni cosa mobile fosse consumata e incenerita in pochissime frazioni di secondo. Fuoco, fiamme, distruzione, annientamento: dove, se non lì? All’interno delle forge rinomate dell’isola mediterranea di Cipro, ove colossali quantità di rame venivano sottoposte a liquefazione, prima della mescita nei recipienti ove lo stagno l’aspettava per poter formare l’essenziale lega eponima dell’Età del Bronzo. E gli addetti ai lavori, ma anche i viaggiatori e semplici conoscitori dell’ambiente locale, raccontavano con enfasi dell’ennesimo ritorno fastidioso ma del tutto inevitabile di sciami del pirausta (πυραύστης) una presenza svolazzante, delle dimensioni approssimative di un moscone, che all’accensione delle fiamme vive sopra un certo grado di temperatura compariva per ronzare attorno agli utilizzatori di questi ultimi. E quando, al termine della giornata, di tutto ciò restavano soltanto dei carboni ardenti, ad essi faceva ritorno e periva silenziosamente, prima del tramonto. Ancora una volta, dunque, un insetto ma dotato di caratteristiche del tutto mitologiche che parevano accomunarlo alla salamandra. Usato estensivamente in drammaturgia e retorica nel corso dei secoli, talvolta come sinonimo della falena che arde nel tentativo vano di trascendere la sua mortalità, l’animale misterioso viene nuovamente discusso da figure latine del calibro di Seneca, Plinio il vecchio ed Eliano di Preneste, uno studioso del sofista Pausania. Che nel suo trattato De animalium natura, del II sec. d.C. discute con approccio metodico dei diversi contesti da cui giungono a palesarsi gli esseri viventi: le montagne, il mare, l’aria stessa. Ed infine il fuoco, mediante un tipo di processo in merito a cui lui era pronto ad ammettere la propria ignoranza. Altri studiosi, nel corso della storia medievale e moderna, non avrebbero scelto lo stesso sentiero…
L’idea che la generazione naturale potesse derivare, oltre che dalla putrefazione, anche dall’intenso calore non perse dunque il proprio fascino nel millennio successivo ed oltre. Con un rinnovato interesse nei confronti del misterioso pirausta (o piralide, pirallide, pirigone) a partire dall’inizio del XVI secolo, quando ne scrissero in rapida successione il saggista Erasmo da Rotterdam (Adagi – 1500) il naturalista Ulisse Aldrovandi (De animalibus insectis libri septem -1602) e di nuovo lo scrittore scozzese Alexander Ross (Arcana Microcosmi – 1652) che nel tentativo di screditare il rivale Thomas Browne, parlava del modo in cui taluni esseri potessero sopravvivere all’interno del fuoco, sopravvivendo ad esso tramite l’utilizzo di speciali “unguenti”.
Per individuare un possibile approccio razionale alla questione, tuttavia, appare necessario spingersi fino agli studi del 1934 dell’entomologo belga Albert Désiré C. H. Collart, primo a scrivere estensivamente di un coleottero che aveva ripetutamente osservato in vari stadi del proprio ciclo vitale all’interno della corteccia carbonizzata degli alberi di pino, successivamente ad un incendio boschivo. Esso era il Melanophila acuminata o insetto nero del fuoco, un tipo di scarabeo buprestide, le cui larve e giovani adulti solevano nutrirsi del legno intenerito degli alberi già sottoposti a stress termici di soverchiante rilievo. Un volatore ragionevolmente agile il cui comportamento era in via aneddotica ben conosciuto dai pompieri che operavano in corrispondenza degli incendi boschivi, ove nugoli di tale specie erano soliti passare sopra le loro teste, scomparendo dentro il fumo per dirigersi verso il centro dell’inferno in Terra per recarsi a praticare i propri rapidi rituali d’accoppiamento. Una propensione evolutiva che oggi sappiamo, grazie ad ulteriori approfondimenti, essere il frutto di particolari recettori degli infrarossi presenti nel torace dell’animale, che gli permettono d’individuare fonti di calore particolarmente intenso. Così da indirizzarlo per colonizzare, prima di qualsiasi altra forma di vita, le zone di foresta al tempo stesso aperte e vulnerabili alle mandibole dei propri piccoli, nonché totalmente prive di predatori. Un’attrazione simile a quella sperimentata possibilmente dai moscerini del genere Microsania, che il francese Emile Janssens notò nel 1950 essere soliti formare congregazioni danzanti attorno ai falò notturni, per poi scomparire nel giro di pochi attimi allo spegnimento di questi. Un processo che potremmo definire, dal punto di vista degli osservatori di un tempo, simile alla loro repentina dipartita o incenerimento. Da qui a mettere in relazione tali consapevolezze ritrovate con gli scritti di Aristotele, Plinio ed Eliano il passo è relativamente breve, come espone anche il celebre criptozoologo Karl Shuker per la prima volta nei suoi testi sul tema dei draghi risalenti alla metà degli anni ’90, e di nuovo in un recente post del blog che tiene con cadenza poco più che settimanale online. Dove utilizza alcune illustrazioni realizzate con l’intelligenza artificiale per coadiuvare i molti esempi tracciati, nel corso delle epoche, nel tentativo di dare un volto allo svolazzante pirausta. E dopo tutto va anche sottolineato come l’utilizzo estensivo di resine di pino come miccia d’accensione nelle fornaci del rame del Mondo Antico, incluse quelle cipriote, avrebbe avuto una forza d’attrazione non indifferente per questi e molteplici altre varietà d’insetti locali.
Che la morte possa dare luogo alla rinascita è una tra le prime nozioni elaborate dalla filosofia greca, come riassunto dall’esplicita espressione attribuita aneddoticamente ad Eraclito: πάντα ῥεῖ – Tutto scorre. Perciò in che modo l’ossidazione deflagrante della materia dovrebbe costituire un’eccezione, se guardiamo la questione da un punto di vantaggio cosmico tornando alla remota origine di ogni cosa?
Proprio in forza delle conoscenze odierne, possiamo finalmente dire di esser fatti della stessa materia delle stelle, da cui scaturiscono i mattoni stessi della vita al termine dei lunghi processi cosmici e planetari. Il che ci rende tutti dei pirausti in senso lato, che attendono soltanto di andare incontro allo stesso destino. Quando per l’esaurimento dei metalli pesanti, l’astro solare del mattino si trasformerà nell’ipertrofico messo dell’Apocalisse radioattiva. Per poi collassare successivamente ai fuochi d’artificio, assieme a tutto il resto, in un microscopico buco nero.