Non è particolarmente insolito decidere di mantenere al centro dei propri pensieri condizioni o circostanze memorabili della propria infanzia. Incluso il soprannome scelto, in questo caso dai coetanei con cui trascorreva liete giornate a Berna, Svizzera, per colui che in seguito sarebbe diventato il più encomiabile, citato demiurgo delle sinfonie corali prodotte dalla chincaglieria del mondo. Non possiamo dire di conoscere d’altronde quale sia il significato di quel termine, Zimoun, mentre molto più condivisibile risulta essere l’altro residuo di quell’epoca, così frequentemente citato da costui in occasione delle plurime interviste rilasciate nel corso degli ultimi vent’anni: la grande stufa che lo affascinò all’interno della casa dei suoi genitori. Oggetto oblungo di metallo lucido, il cui rombo sostenuto, ed il ticchettio prodotto al cambio di temperatura, diventarono per lui l’equivalenza di un potente sentimento, ovvero la profonda risultanza di trovarsi avvolto da uno spazio, la sua musica, l’odore e l’imponenza dei mutamenti. Così che, crescendo, pur senza posizionarsi come il ricevente di un’educazione artistica formale, egli avrebbe elaborato nella propria mente un metodo per scorporare e interpretare il mondo. Forse il più difficile tra i molti, questa costruzione di complesse installazioni artistiche, destinate a diventare benvolute dalle mostre, gallerie e spazi museali di ben oltre la metà del mondo. Attraverso l’evoluzione progressiva di una tale tecnica, difficile da ricostruire nonostante la pesante complessità delle disquisizioni pseudo-biografiche che lui stesso, o altri, si sono preoccupati d’inserire su Wikipedia, tali opere si sarebbero così guadagnate alcuni fattori estetici ricorrenti: l’utilizzo privilegiato di materiali di recupero o similari, la modularità ripetuta in grado di portare solamente in apparenza alla monotonia, la produzione auditiva di un chiacchiericcio di suoni stocastici, inerentemente difficili da prevedere. Ancorché lo stesso Zimoun ami ripetere che la sua arte non produce meramente musica, costituendo più che altro l’effettiva comunione delle percezioni sensoriali sovrapposte, perciò quello che si sente, assieme a quelle immagini tracciate dalle luci ed ombre, costituiscono elementi a pari merito importanti di un processo la cui complessità trascende il singolo momento. Evolvendosi attraverso profusioni caotiche soltanto in apparenza…
Zimoun dunque, diventato celebre su Internet grazie ai suoi montaggi di creazioni pregresse, fatte sfumare in lunghi video l’una di seguito all’altra in una maniera in grado di anticipare le metodologie sincopate d’Instagram e TikTok, costituisce l’artista post-moderno per eccellenza, in cui finalità, approcci, sistemi e significato vengono affidati quasi totalmente alle particolari inclinazioni dell’osservatore/ascoltatore. Ragion per cui alcun titolo è presente nella sua poetica con l’obiettivo di guidare l’esperienza, laddove preferisce attribuire locuzioni meramente descrittive ai singolari prodotti della sua arte. Denominazioni come “150 motori elettrici preparati, filo di riempimento da 1.0 mm” (2011) o ancora il memorabile “294 motori elettrici preparati, palle di sughero, scatole di cartone 41x41x41 cm” (2012); creazioni che potrete cercare d’individuare nel sincopato repertorio d’apertura a questo articolo, e di cui merita menzione a parte l’effettiva ricorrenza di un simile termine in lingua inglese, prepared. Il cui riferimento va nello specifico alle piccole alterazioni presumibilmente introdotte da queste sapienti mani nel funzionamento dei fondamentali dispositivi latori di forza motrice, oltre ad essere una citazione dei cosiddetti pianoforti “preparati” del compositore avant-garde John Cage (1912-1992) l’artista della musica che ribellandosi ai canoni imposti dai maestri, creava degli strumenti modificati con viti, bulloni o altri implementi di funzionale “disturbo”, così da generare un susseguirsi di note semplicemente impossibile da riprodurre altrove. Una condizione meditativa ulteriore, tanto spesso perseguita a suo modo dallo stesso collega contemporaneo, ogni qual volta Zimoun calibra il fruscìo prodotto dagli oggetti all’interno dello spazio architettonico assegnato, la cui risonanza diviene essa stessa parte del mormorìo avvolgente destinato a sovrapporsi con la sua identità creatrice. Notevole per imponenza, a tal proposito, l’opera temporanea (come la stragrande maggioranza di quelle prodotte) di “36 ventilatori, 4,7 metri cubi di patatine da imballaggio di polistirolo” (2014) consistente in un’intero salone del museo di Lugano in Svizzera, trasformato nel sito di una continuativa tempesta frusciante in cui una matrice di oggetti si agita, come all’interno di una colossale lavatrice. Con un’imponenza raggiunta e forse addirittura superata nel 2020, grazie alla modifica in collaborazione con l’architetto Hannes Zweifel di un serbatoio industriale degli anni ’50 a Dottikon, trasformato in camera di risonanza per 329 palle di cotone fatte rimbalzare ritmicamente sulle pareti grazie ad altrettanti motorini. In maniera dichiaratamente intenzionata al sincronismo, ma che come inevitabilmente avviene pressoché ogni volta, causa lunghezza variabile dei fili, irregolarità prodotte dalle condizioni ambientali ed altro, avrebbe costituito l’approssimazione di un fondamentale scroscio ininterrotto e pulsante.
Forse meno imponente, ma non per questo privo di comparabili implicazioni suggestive, l’opera creata all’apice del periodo pandemico nel 2021, come iniziativa in collaborazione con il produttore di orologi Jaeger-LeCoultre, intenzionato in questo modo a celebrare il suo 150° anniversario. Uno spazio quadrangolare intitolato in modo per lui atipico con l’appellativo conciso di Sound Maker, consistente un amalgama di pannelli di compensato contro cui battevano 2.000 dischi di metallo, fatti agitare obliquamente tramite l’impiego di una quantità proporzionale di sottili fili di metallo.
Punti di arrivo differenti, eppure tutti egualmente validi, della cognizione al centro della visione e la poetica di un tale eclettico artista, attivo anche nella produzione puramente aurale di brani musicali prevedibilmente fuori dal coro del mercato globalizzato dei suoni. Colui che come ogni vero musicista contemporaneo scevro di pesanti modelli, sa quando è il momento di anteporre i sentimenti, l’interiorità e i processi istintivi, alla fondamentale veicolazione di un messaggio latente. Potendo sfruttare, in ogni caso rilevante, il significativo valore aggiunto del mondo stesso che tenta quotidianamente di essere la nostra orchestra. Purché ci guardiamo momentaneamente attorno, ed impariamo a tacere per il trascorrere di preziosi minuti, utili a riuscire finalmente a sentirlo.