C’è una specifica ragione per il fatto che la preponderante maggioranza dei passeggeri a bordo durante l’ultimo grande naufragio di un transatlantico il 26 luglio 1956 ebbero l’opportunità di essere portati in salvo presso il porto di New York, successivamente al tragico scontro con la nave svedese Stockholm a largo di Nantucket Bay. E tale contingenza ha un nome ed un cognome, Raoul de Beaudéan: l’abile comandante del vascello di simile destinazione d’uso, la Île de France, che egli seppe manovrare con perizia incomparabile, ponendola di traverso a 370 metri dallo scafo inclinato a prossimo all’affondamento, per riuscire così a mettere in salvo direttamente 753 naufraghi. Ma questo non è tutto: lo spazio di mare calmo creatosi tra le due navi, ove far passare le scialuppe di salvataggio, avrebbe contribuito ulteriormente al recupero di ulteriori 542 naufraghi da parte della Stockholm stessa, rimasta miracolosamente a galla grazie alla sua prua rinforzata da rompighiaccio. Molti altri, nel frattempo, erano saliti a bordo dei due mercantili Cape Ann e Thomas, tanto che al termine delle 11 ore trascorse prima che la sfortunata Andrea Doria scomparisse sotto il livello del mare, soltanto 52 persone avrebbero finito per avere la peggio, tra membri dell’equipaggio e passeggeri deceduti nell’impatto oppure, per varie ragioni, impossibilitati a mettersi in salvo. Un risultato, vista la serietà della situazione, degno di un encomio anche in un tale disastro. Gli altri contenuti della nave, prevedibilmente, non furono altrettanto fortunati: i pregiati accessori e le suppellettili di un letterale hotel di lusso creato per attraversare l’oceano, le diverse casseforti a bordo, le opere d’arte e gli arredi creati in via specifica per tale simbolo del lusso per i naviganti, frequentato dal jet-set di due continenti. E l’intero contenuto della stiva, incluso quello dell’alloggiamento 2, del cui notevole valore pecuniario pressoché nessuno, a bordo, era neppure a conoscenza. Se in un momento ragionevolmente vicino a quel un pesce o altro essere degli abissi, in qualche modo, avesse oltrepassato un portellone poco dopo il disastro, avrebbe potuto scorgerne la forma tra i resti del container rovesciato: un’automobile tipicamente rappresentativa di quell’epoca, benché dotata di alcuni tratti distintivi degni di essere elencati. Le malcapitate conseguenze del fato infatti avevano disposto che proprio in tale traversata condannata al disastro, fosse stata inclusa a bordo la finale risultanza di un progetto dal costo complessivo di 150.000 dollari (equivalenti a due milioni dei nostri giorni) e 15 mesi di lavoro presso la stimata carrozzeria Ghia di Torino, ormai da anni un fornitore della grande compagnia motoristica Chrysler statunitense. Veicolo circondato dal segreto industriale e caricato a bordo con una gru, lontano da occhi indiscreti, proprio perché destinato ad effettuare un tour a effetto degli show motoristici nordamericani a partire dal 1957, tra l’interesse e l’entusiastica partecipazione del pubblico internazionale. Una vettura degna di rappresentare, nell’opinione di alcuni, una delle vette maggiori mai raggiunte dalla progettazione motoristica di quel decennio, benché un fattore di tale valutazione possa essere individuato proprio nella natura misteriosa e inconcludente della sua fallimentare traversata…
La Chrysler Norseman, come era stata denominata in onore degli antenati nordici del suo designer, Virgil Exner (paradossalmente della stessa nazionalità della nave responsabile del suo affondamento) doveva quindi costituire un valido esempio delle sue rinomate sensibilità di progettista, che lo avevano portato dal 1955 a capo della divisione aziendale Forward Look, un tentativo pienamente cosciente di superare la reputazione della compagnia di Detroit, nota per le sue vetture “affidabili ma poco entusiasmanti” soprattutto dal punto di vista esteriore. Allorché il precoce creativo, già responsabile della linea Pontiac presso la General Motors prima di aver raggiunto i 30 anni, approdò nel nuovo marchio con l’intento di modificarne totalmente l’immagine attraverso l’utilizzo di linee armoniose, cromature attentamente calibrate ed un largo impiego dell’aerodinamica a partire da una sua interpretazione delle caratteristiche “pinne” tanto amate dal competitor Cadillac, prese direttamente in prestito dagli aerei della seconda guerra mondiale. Persino tra le sue cosiddette Idea Cars, d’altronde, la Norseman era qualcosa di speciale: una sedan fastback (ovvero con profilo arrotondato verso il retro) la cui caratteristica immediatamente degna di nota era il suo tetto a sbalzo costruito senza l’uso di pilastri frontali, massimizzando in questo modo la visibilità del guidatore. Una struttura avveniristica in se stessa, con tanto di tettuccio panoramico apribile nella parte posteriore, completamente in alluminio sufficientemente spesso da poter sostenere agevolmente il peso dell’auto nel caso di un accidentale cappottamento. Con fari, maniglie e sistema d’apertura del cofano a scomparsa, la linea del veicolo era estremamente curata, mentre le caratteristiche di sicurezza molto avanzate per l’epoca includevano vetri infrangibili, cinture di sicurezza per tutti i passeggeri ed un’impostazione dell’abitacolo già simile a quella prevista dalle norme anti-infortuni che sarebbero state introdotte soltanto quarant’anni dopo nel territorio statunitense. Pienamente funzionante per volere dei committenti grazie ad un motore Chrysler Hemi da 235 cavalli, l’automobile era in effetti destinata, paradossalmente, ad un crash test distruttivo dopo l’utilizzo nella stagione degli show motoristici di quell’anno significativo, benché nessuno immaginasse che potesse andare in pezzi ancor prima di toccare le coste del Nuovo Mondo. L’imprevedibile naufragio dell’Andrea Doria fu in effetti una tale perdita per la Chrysler, sia in termini di risorse investite che di visibilità mancata, che in un primo momento i familiari di Exner, già fiaccato da un recente attacco di cuore, omisero di mettere al corrente il progettista del destino della sua creazione. Perduta per sempre, a causa della svista coincidente dei due equipaggi che avrebbero finito inevitabilmente per accusarsi a vicenda.
Lunga e complicata fu a tal proposito l’inchiesta per determinare le responsabilità nel naufragio dell’Andrea Doria. Che gli avvocati italiani attribuirono alla mancanza di esperienza da parte dell’addetto al radar svedese, mentre i connazionali di quest’ultimo affermarono che il capitano italiano Piero Calamai, contravvenendo al codice internazionale, aveva tentato di evitare la collisione virando a babordo (sinistra) invece che la parte contraria. Una scelta motivata a suo dire dalle circostanze e che non si sarebbe mai rimproverato, nonostante il grande senso di responsabilità che avrebbe provato per il resto della vita nei confronti del drammatico incidente, rifiutandosi di comandare altre navi. E per quanto concerne la perduta Norseman? Non molti anni dopo, venne redatto uno studio di fattibilità per l’ipotetico recupero per volere del collezionista d’auto di Chicago Joe Bortz, il quale determinò come sostanzialmente impossibile il recupero dell’auto nella sua tomba subacquea a 50 metri di profondità. Non soltanto per motivazioni logistiche, ma anche per il fatto che la sua carrozzeria d’alluminio, in un ambiente salmastro all’interno di uno spazio metallico, sarebbe andata molto presto incontro a ossidazione, trasformandosi sostanzialmente in poco tempo in un semplice cumulo di rottami. Ipotesi destinata a trovare triste conferma verso la metà degli anni ’90, quando il sub David Bright, tra i molti esploratori più o meno autorizzati del pericoloso relitto, avrebbe raccontato di aver visto con i propri occhi il contenuto della stiva numero 2. Non che l’Andrea Doria, suo malgrado, avesse a quel punto terminato di sottrarre la preziosa vita appartenente agli esseri umani, essendosi guadagnata il soprannome di “Everest dei mari” per le 16 persone rimaste nel corso di decadi intrappolate tra le sue lamiere tra gli abissi, all’imprudente ricerca di non meglio definiti tesori. Ma il tempo inesorabile, allo stato attuale dei fatti, rende un simile proposito sempre più remoto.
Così come quello, paventato da parte di alcuni, di poter almeno incorporare parte dell’originale veicolo in un’ipotetica ricostruzione della Norseman. Ed il mondo dei motori, inesplicabilmente, ne esce in qualche modo impoverito di spunti e leggendarie idee. Ricordandoci che i propositi di umida condanna e conseguente ruggine del mondo, soprattutto in mare, non possono essere controllati da chicchessia.