Trovare un ago in un pagliaio non è mai una cosa semplice, soprattutto quando si scopre di averlo cercato per quasi un secolo nel pagliaio sbagliato. Così dev’essere sembrato di aver fatto, all’intera comunità scientifica dei vulcanologi, alla recente pubblicazione di uno studio relativo ad uno degli eventi climatici più significativi del XIX secolo. Avvenuto nel 1831, uno dei cosiddetti “anni senza estate” come quello celebre in letteratura di 16 anni prima, per aver costretto a rifugiarsi in una baita svizzera Mary Shelley e Lord Byron, dove scrissero rispettivamente il romanzo Frankenstein e la poesia nichilista Darkness, che parlava della distruzione del Sole. Evento quest’ultimo studiato tanto a lungo ed approfonditamente, da aver gettato alcuni presupposti relativi alla contestualizzazione del raffreddamento temporaneo terrestre dovuto ad eruzioni vulcaniche, tali da condizionare l’applicazione di tale concetto secondo rigidi criteri che sembravano corretti in ogni circostanza di questo tipo: l’Ilopango in Perù nel 536 d.C; il monte Rinjani a Lombok nel 1257; il devastante scoppio nel 1883 del Kratatoa; Tambora nel 1815 e naturalmente, il monte Pinatubo nel recente 1991, capace di raffreddare ogni singolo mese di quell’anno rispetto alle medie globali acclarate. Tutti luoghi situati in prossimità dell’Equatore, nella maggior parte dei casi verificabili grazie a testimonianze coéve tramandate fino alla nostra epoca, dei rispettivi popoli direttamente coinvolti nelle devastanti catastrofi geologiche superiori al grado 4 della scala VEI. Laddove il caso specifico del 1831, menzionato anch’esso da coloro che lo vissero in prima persona, fu sempre in grado di distinguersi per l’assenza di un fattore scatenante chiaro. Possibile che la Terra fosse stata raffreddata da un vulcano, se nessuna montagna venne vista risvegliarsi in quel particolare periodo della storia umana? Ponendosi tale domanda, scienziati dell’università scozzese di St. Andrews, divisione per la ricerca ambientale, decisero perciò nel 2023 di recarsi in Groenlandia, mettendo in pratica uno dei principali metodi a nostra disposizione nella ricerca dello stato atmosferico di epoche remotamente trascorse. Procedendo all’estrazione di un certo numero di cilindrici campioni di carotaggio dal permafrost, per procedere ad un audit dei diversi livelli di profondità, ciascuno corrispondente ad un diverso periodo di accumulo degli spessi strati ghiacciati. Finalità per la quale Hutchison, Sugden, Burke e Plunkett si sarebbero trovati ad applicare l’approccio particolarmente avveniristico della microscopia elettronica, identificando in questo modo l’innegabile composizione delle particelle di tefra (polvere di cenere riolitica) databili perfettamente all’anno incriminato. Con in più una presa di coscienza collaterale, niente meno che rivoluzionaria: dato l’alto accumulo del materiale in questione, qui si era infatti determinato che l’eruzione del 1831, diversamente dalle altre fin qui citate, doveva aver avuto luogo nell’estremo settentrione, possibilmente entro il Circolo Polare Artico. La caccia, a questo punto, era aperta…
Non esistono in effetti molti vulcani capaci di eruttare quantità di ceneri tali da riflettere la luce solare per un intero anno, a seguito di eruzioni sui livelli più elevati della scala VEI. Ragion per cui la squadra scozzese, dopo alcune false piste rapidamente escluse, sarebbe approdata presso l’arcipelago geograficamente estremo delle isole Kurili, da lungo tempo oggetto di un tormentato contenzioso territoriale tra Russia e Giappone. E per essere più precisi, presso l’isola un tempo usata come base per i sottomarini sovietici di Simushir, caratterizzata dalla presenza di numerosi vulcani e caldere, così come molte altre delle terre emerse vicine. Tra cui spicca senz’altro, per estensione orizzontale, il triplice cratere di Zavaritski, con diametro di 3, 8 e 10 Km. Così chiamato in onore del geologo dell’Accademia delle Scienze dell’URSS Alexander Nikolaevich Zavaritsky, essendo un luogo rilevante alla scoperta di come le fosforiti, pietre precedentemente collegate ai processi chimici sottomarini, potessero formarsi anche a seguito di attività vulcanica nella crosta terrestre. E le cui ceneri residuali, sottoposte alla stessa serie di osservazioni scientifiche dei carotaggi groenlandesi, avrebbe condotto alla sperata realizzazione di una corrispondenza pressoché perfetta: ecco scovata, dunque, l’origine del misterioso quanto repentino raffreddamento del primo terzo del XIX secolo, costato come molti altri simili una serie di dolorose carestie e conseguenze di cibo in diverse nazioni del mondo.
È stato stimato a tal proposito, per offrire un termine di paragone, che il terribile anno senza estate più celebre antistante di 16 anni dovuto all’eruzione del Tambora, potrebbe essere costato una quantità impressionante di 100.000 decessi su scala globale, per la mancata possibilità di effettuare il raccolto in India e Giappone, nonché gravi carenze di risorse alimentari in diversi paesi europei, tra cui la Francia, Gran Bretagna ed Irlanda. Epidemie di tifo si scatenarono nel frattempo nell’Europa meridionale, Italia inclusa, e nei luoghi già freddi come la Svizzera interi laghi e fiumi si ghiacciarono, causando eventi di collasso catastrofico destinati ad avere ulteriori costi in termini di vite umane. Ancorché sia oggi ritenuto, è importante specificarlo, che l’evento in questione fosse la diretta risultanza non soltanto dell’eruzione coéva, bensì anche quelle degli anni precedenti di vulcani nelle Filippine, Ryukyu, i Caraibi ed un’altra misteriosa nell’Oceano Pacifico. Oltre alla collocazione del periodo al termine di quella che è stata chiamata la “piccola era glaciale” , un periodo raggelante durato secoli a partire dal XIV secolo. Il che rende il caso del 1831 senz’altro meno devastante in termini di conseguenze, benché altresì notevole dal punto di vista scientifico e perciò innegabilmente meritevole di studi così accurati.
Non per niente la questione della temperatura terrestre risulta essere, ad oggi, primaria nel discorso climatico proprio perché collegata alla creazione dell’effetto serra che consegue dall’inquinamento antropogenico, possedendo al tempo stesso significative ramificazioni per l’ambiente, l’ecologia, la nostra sopravvivenza. Un profilo di studio all’interno del quale lo studio dei pregressi anni senza estate viene mantenuta in alta considerazione proprio per la possibilità più volte valutata, di poter indurre dei processi simili per intercessione della nostra mano ed i potenti mezzi della tecnologia contemporanea.
Un tentativo, se vogliamo, di togliere la pentola dal fuoco anche senza risolvere il problema alla radice. Che potrebbe, nella migliore delle ipotesi, prolungare per qualche generazione il mantenimento dello status quo? Difficile a dirsi, con certezza. Soprattutto nell’attuale panorama geopolitico, condizionato da problemi più pressanti che il benessere della posterità, già lungamente rassegnata a gravosi propositi di condanna. Dopo tutto, non c’è modo più rapido e sicuro per raffreddare la Terra, che il cosiddetto inverno nucleare. Per non parlare dei successivi secoli o millenni, affinché possa anche soltanto immaginare di tornare scaldarsi!