Un belato nel fotovoltaico: la funzionale pastorizia dei pannelli solari

Se logico è il principio in base a cui l’energia è vita, nella sua forma più astratta e al tempo stesso imprescindibile, non c’è ragione per cui l’effettiva produzione dei presupposti tecnologici di sussistenza debba corrispondere all’assenza di ogni forma di essere guidato da uno spirito ed aspirazioni a vivere serenamente su questa Terra. Per cui le dighe sono avverse ai branchi di salmonidi che risalgono i torrenti; il petrolio inquina; l’eolico costituisce ostacolo per il tragitto degli uccelli migratori. E che dire allora della più economica tra le fonti di elettricità rinnovabili, l’espressione tecnologica degli antichi culti dedicati alla venerazione del dio Sole? Pannelli solari che si estendono, talvolta fino all’orizzonte ed oltre, traducendo il fabbisogno umano in un paesaggio surreale che parrebbe simmetricamente opposto ad ogni residuo presupposto dei processi impliciti del mondo naturale. Eppure tutta questa incandescenza, di elettroni fatti muovere a velocità produttive, pur sempre resta la più economica e accessibile fonte di quel fluido nel contesto dei tempi odierni. Il che offre un funzionale presupposto all’attivazione di processi collaterali, di per se stessi redditizi oltre che utili allo sfruttamento pratico della più preziosa tra le risorse: lo spazio disponibile al di fuori dei confini, ma situato ad una prossimità ragionevole, dei centri abitati metropolitani o rurali.
L’agrofotovoltaico s’inserisce, in tale contesto, per lo sfruttamento raddoppiato di quei terreni, ove la presenza di strutture assorbenti su pali sopraelevati non subordina, inerentemente, la crescita e il rigoglio di particolari tipologie di vegetazione. Ferma restando l’esigenza delle piante di una certa quantità di luce, inevitabilmente ridotta dalla forma piatta e rettangolare dei suddetti dispositivi optoelettronici, disposti come altrettanti paraventi trasferiti sul piano dell’orizzonte. Ragion per cui è stato determinato, attraverso piani di fattibilità e ricerche di settore nel corso delle ultime due decadi, che lo sfruttamento economicamente più efficace è quello che prevede il coinvolgimento di una terza parte; rappresentata, per l’appunto, dal bestiame. Le pecore solari sono quindi la soluzione maggiormente collaudata perché tra tutti gli animali alle radici di un’industria zoologica, presentano il minor numero di problemi di gestione. Non danneggiano le strutture antropogeniche con lo strofinamento come fanno le mucche, non scavano buche con gli zoccoli alla maniera delle capre. Offrendo, nel contempo, lana vendibile e copiose quantità di carne, soprattutto quando s’intensificano gli accoppiamenti per sfruttare il consumo incrementato d’agnelli durante le feste islamiche del Ramadan ed Eid. Ciò mentre offrono uno spontaneo quanto utile contributo al mantenimento del sostrato erboso entro l’area ombreggiata. Riducendo il rischio incendio ed impedendo la progressiva copertura dei pannelli ad opera delle piante più grandi, con un’intervento necessario da parte di mani umane esponenzialmente minore…

Molte sono, su Internet, le fonti disponibili per l’approfondimento dell’agrofotovoltaico, con siti ricchi di guide, studi scientifici di riferimento e FAQ dedicate all’argomento. Presumibilmente in forza di un senso di responsabilità latente da chi ha un ruolo attivo in questa prassi trasversale, vista come un metodo efficace per ridurre l’impronta carbonica, velocizzare la transizione energetica ed offrire nuovi spunti a chi si trova in ristrettezze visto il peggioramento delle condizioni economiche nei campi storici delle economie nazionali. L’esempio più frequente citato è quello dell’ASGA (American Solar Graze Association) che vanta 800 membri in 45 stati, responsabile di numerosi seminari e conferenze sull’argomento. Ma le cose iniziano a muoversi anche in altri paesi, con un’iniziativa sperimentale attualmente in corso nella regione greca della Tracia da parte dell’Enel, studi universitari in molti paesi europei e compagnie private di successo in luoghi come il Canada e l’Australia. Poiché i numeri dimostrano, per quanto viene entusiasticamente fatto notare, che non soltanto l’utilizzo dei parchi solari come zone di pascolo riduce il loro costo di manutenzione ma incrementa sensibilmente il ritorno d’investimento degli allevatori, grazie ad alcuni validi fattori di contesto. Prima di tutto, l’esistenza di una zona facilmente raggiungibile, pienamente recintata, pacifica e silenziosa che risulta per la maggior parte del tempo ad esclusiva disposizione degli animali. Ma anche grazie alla capacità d’adattamento di talune varietà d’erba, che proprio in funzione dell’ombra prodotta dai pannelli soprastanti cresce più veloce e riesce a mantenere una maggiore quantità di umidità al proprio interno. Si tratterebbe, dunque, molto più che la mera unione di due pratiche care agli ambientalisti con mere finalità di marketing e propagandistiche. Giungendo a ricordare per certi versi l’approccio tradizionale in molti paesi asiatici di allevare anatre all’interno delle risaie, un sistema di suo conto dedicato unicamente alla produzione di cibo. E di cui, in tal senso, il pascolo solare potrebbe rappresentare un’evoluzione nelle circostanze della società odierna.
Ogni processo mirato a far mutare fondamentalmente i concetti di un paradigma, d’altra parte, necessita di un’adozione su larga scala perché un effetto a lungo termine possa risultare misurabile in base a metodologie statistiche. Ragion per cui l’adozione capillare da parte degli imprenditori può raggiungere obiettivi per lo più dimostrativi, mentre l’introduzione a tappeto, con conseguente ottenimento di facilitazioni logistiche grazie alle logiche dell’economia di scala, necessiterebbe di incentivi di natura legale ed agevolazioni da parte dello stato. Il che sta tardando a palesarsi nella stragrande maggioranza dei paesi coinvolti, con la possibile eccezione della Cina. Dove secondo le notizie pubblicate dalle testate nazionali, importanti progetti sono stati avviati a partire dal 2021 con l’adozione su larga scala dell’agrofotovoltaico in oltre 2.300 villaggi di zone rurali, soluzione strategica per la finalità dichiarata del raggiungimento della neutralità carbonica entro l’anno 2060.

L’utilizzo dei bovini nell’agrofotovoltaico è un approccio nuovo e ancora in fase sperimentale. Che prevede un investimento maggiore, per sopraelevare e rinforzare i pannelli, affinché non possano essere raggiunti dagli animali.

Il problema principale dei pascoli fotovoltaici, in paesi come quelli occidentali dove la terra è per lo più di proprietà privata, resta allo stato attuale dei fatti la necessità inerente di cooperazione tra settori tanto distanti, con processi aziendali e culture radicalmente all’opposto. Laddove il piccolo agricoltore ed allevatore, per poter condurre i propri ovini oltre la frontiera della convenzione, dovrà necessariamente stabilire un punto di contatto con imponenti gruppi o società internazionali. Le quali, a loro volta, hanno un interesse esponenzialmente minore all’ottimizzazione offerta per singole installazioni delle loro reti spropositate. Per cui la strada come spesso capita, allo stato dei fatti attuali resta in salita. Ma ogni presupposto di cambiamento inizia con il singolo passo di uno zoccolo. O come in questo caso, un riecheggiante belato. Ben venga, per concludere, la propaganda dichiaratamente responsabile di chi vorrebbe congiungere la produzione di lana ai funzionali megawatt dell’abbondanza contemporanea. Giacché i morbidi golf da mettersi l’inverno e stufe elettriche non sono certo in contrapposizione. Anzi!

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