Se l’area naturale del parco antistante la grande collina vulcanica del monte Popa, a meridione dell’importante città storica di Bagan, mantiene intatta la propria biodiversità ancestrale, è in parte merito anche delle particolari caratteristiche della religione nazionale della Birmania. Una versione locale del Buddhismo connotata da credenze animistiche, ovvero strettamente interconnesse al carattere prezioso ed insostituibile della natura. Che prendono il nome di culto dei Nan, un tipo di spiriti capaci di risiedere negli alberi, i laghi, i fiumi e le montagne del paese oggetto del maggior numero di colpi di stato nell’intera penisola indocinese contemporanea. Esseri superni in grado di proteggere le genti dal disastro, alcuni dei più importanti tra i quali risiederebbero, secondo le conoscenze tramandate, sulla sommità di tale svettante rilievo, chiamato dagli umanisti comparitivi “il Monte Olimpo” dell’Asia meridionale. Esseri come il magnifico Mahagiri, figlio del fabbro degli Dei nonché reale consorte di Tagaung e Popa Medaw Ma Wunna, l’enorme orchessa che si nutre unicamente di piante primaverili. La cui associazione potrebbe costituire l’origine etimologica del toponimo locale, derivato dalla parola in sanscrito puppha, che significa per l’appunto “fiore”. Quando si pensa oggi al monte in questione tuttavia l’associazione collettiva ad un’immagine non è mai quella della cima più elevata, bensì l’antistante cono eruttivo secondario, spento da molti millenni, ove trova collocazione lo scintillante monastero di Taung Kalat dalle cinque pagode ed una quantità commisurata di stupa, costruito al fine di venerare i suddetti sacri residenti dell’elevato territorio celeste. Meta di pellegrinaggio particolarmente apprezzata dai fedeli, nonché innumerevoli turisti provenienti da ogni parte del mondo, interessati a visitare dall’interno uno degli scorci architettonici più memorabili di tutto il paese. Riportando in seguito su Internet di un’esperienza che non sempre sembrerebbe straordinariamente positiva, in funzione dell’elevato grado di affollamento, la quantità di venditori e mendicanti ma soprattutto un caotico contributo da parte del mondo animale. È noto infatti che una nutrita popolazione di macachi reso (M. mulatta), scimmie invadenti dal pelo dorato appartenenti alla famiglia dei cercopitechi, abbiano lasciato la foresta per stabilirsi lungo il corso dei simbolici 777 scalini da percorrere nella ricerca nominale della comunione con l’Essenza suprema. Abituandosi ad importunare i turisti, nell’insistente richiesta di cibo, mentre defecano con apprezzabile trasporto lungo l’intero tragitto sacro, richiedendo l’intervento continuativo degli addetti ecologici locali. Anche perché, come racconta chi è passato da queste parti lasciando una testimonianza in lingua inglese, l’usanza prevede che la scalinata in questione venga rigorosamente percorsa a piedi nudi. Un’esperienza, quest’ultima, pericolosa anche per la natura spesso umida e scivolosa del suddetto tragitto inclinato…
L’effettiva antichità, d’altronde, del complesso religioso di Taung Kalat non sembra facilmente reperibile su Internet, in parte per la sovrapposizione nominale che lo vede spesso associato indissolubilmente al Popa propriamente detto, con la sua leggenda che lo vorrebbe sorto a seguito di un terremoto nel quinto secolo d.C, per assurgere a polo religioso mezzo millennio dopo, quando il grande sovrano conquistatore Anawrahta fece benedire i propri eserciti all’ombra della potente e significativa montagna. Così come, in base a una leggenda, avrebbe in epoca coéva messo a morte l’eroe Byatta che si era innamorato della sopracitata orchessa, andando contro il suo volere reale, per poi essere divinizzato ed elevato alla qualifica di Nan. Laddove l’effettiva struttura antropogenica attualmente visibile, con la sua iconica configurazione, sembrerebbe formalmente associata al più presto all’eremita buddhista U Khandi (1868-1949) che per oltre 40 anni fu organizzatore di attività religiose nell’intero estendersi della nazione burmese. Tra cui il mantenimento, a quanto si narra, delle migliori condizioni possibili della sopracitata scala in cemento, la quale d’altra parte si presenta dotata di una manifattura decisamente tipica dell’era contemporanea. Senza nulla togliere all’autentico senso di devozione che sembrerebbe aver guidato gli ignoti architetti, capaci di porre in essere un letterale castello dei sogni, dislocato con maestria evidente al fine di occupare l’intero neck, o collo vulcanico di una formazione paesaggistica già di per se notevolmente singolare ed affascinante. Così come risulta esserlo, incidentalmente, il comparto naturalistico degli immediati dintorni, caratterizzato da un’elevata quantità di creature endemiche che continuano ancora oggi ad essere scoperte.
Vedi lo sfuggente scinco Lygosoma popae e soprattutto l’ormai celebre scimmia Trachypithecus p. alias langur del monte Popa, con la caratteristica colorazione facciale che pare alludere ad un paio d’occhiali. Una parente degli onnipresenti macachi del monastero, scoperto dalla scienza soltanto nel 2020 e quasi subito iscritta alle specie a rischio d’estinzione, per riduzione dell’habitat nonostante l’innata affinità ambientalista delle genti birmane. Ulteriormente connotata dal ben noto rispetto dei buddhisti nei confronti di ogni essere vivente di questo pianeta, certe volte ancora ricco di intere popolazioni tassonomicamente ignote.
Ragion per cui la questione delle stesse scimmie della montagna presenta un problema tanto significativo, che non può essere risolto senza compromettere i processi di sopravvivenza ormai entrati strettamente a far parte dello stile di vita di questi fin troppo adattabili animali. Alla cui capacità ereditaria di raccogliere e procurarsi il cibo, è ormai subentrata da generazioni l’abitudine d’importunare i lontani cugini umani, la cui empatia è spesso portata a cedere, finendo per acquistare cibo come le banane offerte dai molti venditori ambulanti situati lungo il tragitto del sentiero ascendente, con l’obiettivo esplicito ed inappellabile di concederne una parte ai guardiani pelosi della sommità distante. Gravi punizioni, d’altra parte, incombono su chiunque dovesse andare contro l’usanza locale, spesso riconducibili all’esperienza negativa di coloro che finiscono per essere letteralmente aggredito dagli onnipresenti primati en masse, di per se del tutto disinteressati a mantenere l’ottima reputazione d’accoglienza del paese di cui fanno parte. Senza contare la maniera in cui, purtroppo, i primati sacrileghi finiscono anche per impossessarsi delle offerte votive lasciate ai Nan della montagna, spesso ispirando un senso di sacrilegio nei fedeli dell’antico culto religioso, che d’altra parte non potrebbero far nulla senza andare contro i precetti del loro stesso credo. Il che suscita spontanea la domanda: possibile che gli animali si comportino in tale maniera, semplicemente perché si trovano effettivamente a casa loro? Ed ogni costruzione effettuata successivamente, sia in buona sostanza un’imposizione interna, portata a compimento per concetti e accorgimenti di cui non possiedono alcun tipo di percezione latente. Continuando semplicemente ad essere delle scimmie territoriali, così come secoli d’evoluzione pregressa le avevano portate, per l’appunto, a diventare…