Le verità celate sotto il manto di Chirone, gelido errante del Sistema Solare esterno

Nel 1976 Charles Kowal, astronomo americano impiegato presso gli osservatori della Caltech, puntò gli strumenti verso un quadrante celeste di 6400 gradi nel piano ellittico delle orbite solari, con lo scopo specifico di rilevare oggetti relativamente piccoli e vicini, in quest’area trascurata dai precedenti sondaggi astronomici condotti fin dall’inizio del XX secolo. Non è noto esattamente quale volume di scoperte si aspettasse di ascrivere al suo curriculum, tuttavia il suo lavoro, destinato a durare nove anni, avrebbe condotto al rilevamento di un singolo corpo astrale al di là di Nettuno, per il quale l’osservatore scelse di utilizzare il nome mitologico di Chirone, il tutore di Ercole, Achille e numerosi altri eroi dell’antica Grecia. Figlio del titano Cronos e la ninfa Filira, dotato di un aspetto non propriamente umano, essendo per metà uomo e metà cavallo. Una scelta metaforica dovuta alla singolarità della sua splendente chioma, che non potendo essere una vera e propria atmosfera per ragioni proporzionali assumeva necessariamente le caratteristiche di una coma, ovvero l’alone di polvere e detriti che forma, in condizioni normali, la coda di una cometa. Eppure grazie alle fotografie di archivio vecchie di anni in cui l’ombra di tale “vicino” oscurava la matrice stellare, senza essere stato tuttavia identificato (una procedura chiamata precovery) fu possibile determinare accuratamente la sua orbita lunga 50,7 anni terrestri, inclinata di 6,93 gradi sul piano ellittico e non priva di una certa stabilità millenaria, sebbene si calcoli che un giorno ancora molto lontano, Chirone ci lascerà per sempre andando a smarrirsi nell’opacità esterna della nube di Oort. Kowal, con una lunga esperienza professionale alle spalle, aveva a questo punto già determinato che altri corpi simili sarebbero stati individuati negli anni a venire, riservando per la nomenclatura l’ideale repertorio non ancora sfruttato degli ibridi equini del Mondo Antico. Ci sarebbero tuttavia voluti ulteriori 15 anni, dalla sua scoperta formalizzata nel ’77, affinché il secondo centauro, Folo, entrasse nei cataloghi spaziali a nostra disposizione, seguito negli anni successivi da Nessus, Asbolo, Chariklo ed Echeclus. Nonché altri esempi più piccoli, destinati ad essere battezzati fuori da questa serie. Con l’avanzamento progressivo degli strumenti a disposizione, tuttavia, una serie di studi condotti a partire dall’anno 2000 avrebbero dimostrato le caratteristiche eccezionali di Chirone persino nel repertorio dei suoi presunti simili, categorizzabili in caratteristiche inerenti, comportamentali e di contesto. Fino all’ultima significativa connotazione, rilevata la scorsa estate grazie al telescopio spaziale James Webb e fatta l’oggetto di un articolo di dicembre sulla rivista Astronomy & Astrophysics, da un gruppo di scienziati dell’UCF Florida Space Institute guidato da Noemí Pinilla-Alonso ed il suo assistente Charles Schambeau. Tra i primi a poter disporre di rilevamenti spettrografici non soltanto del velo esterno di particelle che tanto a lungo aveva lasciato perplessi i loro colleghi, ma anche la scorza esterna di uno degli sferoidi maggiormente misteriosi, e difficili da classificare, nella storia di chi ha gettato lo sguardo verso la direzione opposta alla nostra Stella…

Chirone è d’altronde, da ogni punto di vista rilevante, classificabile come un oggetto transnettuniano, ovvero dotato di un’orbita che interseca soltanto quella del gigante gassoso eponimo, trovandosi per larga parte all’esterno di essa. Il che lo pone in posizione equivalente al declassato Urano, considerato un pianeta a partire dalla sua scoperta nel 1741 soprattutto in funzione del suo movimento prevedibile, ovvero regolare. Un criterio piuttosto semplice il quale, applicato anche in epoca contemporanea per i primi tre anni successivi alla scoperta di Chirone, portò soprattutto la stampa generalista a chiamarlo come un ulteriore mondo dei territori esterni, nonostante il diametro di 218±20 Km bastasse soltanto a farne sostanzialmente un asteroide di dimensioni medio-grandi, benché dotato di un caratteristico anello di polvere, studiato a partire dal 1993 in funzione di alcuni occultamenti delle stelle osservabili prospetticamente. Ma ulteriori osservazioni capaci di rendere in epoca attuale il cosiddetto planetoide un qualcosa di profondamente ed innegabilmente diverso sarebbero giunte a partire dal 2022, grazie all’astrologa del Planetary Science Institute, Amanda Sickafoose. I cui studi evidenziarono le continue trasformazioni della suddetta struttura orbitale, giungendo a caratterizzare il materiale in questione come una nube tutt’altro che stabile, sottoposta a continue ed inspiegabili evoluzioni. Successivamente chiarite dalla NASA stessa nel corso degli ultimi due anni, grazie ai dati raccolti dallo strumento spettrografico NIRSpec del potente JWST, come la risultanza di proiezioni o “pennacchi” dalle origini non del tutto chiare. Ma tale stessa tecnologia poteva fare ancor più di questo, come avremmo scoperto in ultimissima battuta verso la metà del dicembre scorso. Per l’opera di Pinilla-Alonso & co. i quali avrebbero rilevato inizialmente lo spettro di diossido di carbonio e metano negli strati esterni della coma, per poi spostare ulteriormente i loro rilevamenti al di sotto di quel velo, individuando sulla superfice del planetoide ghiacci formati da una componente significativa di monossido di carbonio, un gas assente al di sopra di tale zona. Il che ci permette d’ipotizzare un qualche complesso processo d’interscambio tra i diversi livelli del bolide transnettuniano, forse capace di coinvolgere il nucleo stesso di Chirone. Che risulta tutt’ora impossibile da approfondire, ma chi può dire cosa ci riserverà il futuro? Attualmente l’oggetto in questione si trova in fase di avvicinamento al Sole ed è perciò chiaro che gli scienziati dell’UCF, assieme ai loro colleghi in giro del mondo, continueranno a sorvegliarlo mediante l’attrezzatura più sofisticata di cui l’ingegneria moderna riuscirà a fornirli. Le sorprese, molto probabilmente, non sono ancora finite soprattutto in merito ai nuovi sviluppi, capaci di offrire prospettive precedentemente insospettabili sulla materia presente ai margini del Sistema e perciò presumibilmente, appartenente alle sue epoche più antiche. Oltre all’acquisizione di dati potenzialmente utili a progettare, in un futuro più o meno remoto, l’esplorazione pratica di luoghi come questo.

Come si usa dire in merito alla disquisizione comparativa tra le profondità oceaniche e quelle del cosmo, la materia del vuoto risulta maggiormente penetrabile dalla luce e gli strumenti capaci di rilevarla, rispetto all’acqua salmastra ed opaca, che costituisce la maggior parte del nostro pacifico pianeta azzurro. Il che tende a restituire un’idea di massima, piuttosto che chiara documentazione in merito a singoli, distanti oggetti erranti.
Soprattutto quando non risultano appartenere alla classe energeticamente chiassosa delle stelle propriamente dette, svelando i propri segreti soltanto di luce riflessa da molti, molti milioni di chilometri di distanza. C’è sempre un pesce più piccolo nell’immensità galattica, che attende qualcuno capace di fagocitarlo… Il che risulta molto più praticabile in senso meramente nozionistico, che nel raggiungimento letterale di obiettivi ancora (per quanto?) al di fuori della portata tecnologica di noialtri, squali consumati dal bisogno di conoscenza.

Lascia un commento