Oggetto piramidale dai colori vivaci, l’infiorescenza iconica della Kniphofia o giglio torcia è una visione ricorrente sugli altipiani rigogliosi che vengono comunemente identificati come il tetto del continente africano. Isole sopraelevate, dotate di una propria fauna, un ecosistema indipendente ed un singolo, temuto superpredatore: il lupo etiope, Canis simensis. Qualifica che indubbiamente stride, a conti fatti, con la relazione mutualmente utile identificata tra queste due specie, ad opera dei ricercatori facenti parte del programma per la conservazione di questo canide endemico, di cui restano allo stato brado solamente 500 esemplari. Immaginate dunque la sorpresa di questa equipe guidata dalla biologa di Oxford, Sandra Lai, all’avvistamento di uno di questi ultimi alle prese con un’attività più tipica di api, vespe o farfalle, consistente nel recarsi in rapida sequenza tra i punti popolati dalle piante dell’erba sopracitata. Infilando a turno il proprio naso tra quei petali, per suggere il dolce nettare contenuto all’interno. Un processo di foraggiamento già abbastanza raro per i mammiferi, praticato solamente dai più piccoli in contesti vari, tra cui pipistrelli, marsupiali, roditori, ma letteralmente inaudito nel caso di un grande carnivoro, per di più specializzato in uno stile di vita che si riteneva ormai acclarato da moltissimi anni.
Grande all’incirca come uno sciacallo, e con un manto rosso e bianco che ricorda quello di una volpe, tale coabitante di babbuini e antilopi di montagna era stato in effetti originariamente studiato da Charles Darwin in persona, che osservando la caratteristica lunghezza del muso, lo aveva identificato come possibile antenato remoto delle razze di levrieri. Notando inoltre come un simile fenotipo avesse in realtà lo scopo di facilitare l’animale nello svolgimento della sua principale attività di predazione, praticata nei confronti del roditore Tachyoryctes macrocephalus o ratto talpa dalla testa grande, inseguito con sveltezza fino alle buche camuffate tra l’erba entro cui “tuffarsi” con un salto mirato del tutto simile a quello della volpe artica del remoto Nord del mondo. Una propensione agevolata da ulteriori accorgimenti strategici per la sopravvivenza, tra cui una vita in branchi di fino a 20 esemplari formati da più maschi ed una singola femmina dominante, unica partner attiva dal punto di vista riproduttivo. Con un conseguente rischio non trascurabile di consanguineità, combattuto dai lupi mediante l’interscambio dei membri dei diversi gruppi, nonché l’accoppiamento occasionale con cani domestici ritornati allo stato brado. Il che costituisce, come potrete facilmente immaginare, un problema non da poco per le attività di chi vorrebbe preservare la purezza di una specie ormai tanto rara…
Privo di nemici naturali e sottoposto a una pressione diretta da parte degli uomini decisamente limitata, in funzione dei territori limitati in cui vive e la sua incapacità di arrecare danno al bestiame, il lupo etiope si trova dunque oggi in condizione precaria soprattutto per la riduzione del suo habitat, oltre a saltuarie epidemie di malattie canine quali la rabbia e soprattutto il cimurro, capaci di arrecare danni significativi alla sua collettività già fortemente ridotta. Vedi il tragico esempio registrato nel 2010, in cui oltre 10% della popolazione totale della regione etiope di Guassa Menz scomparve nel giro di pochi mesi, a seguito di una contaminazione dalle origini non prevedibili né in alcun modo acclarate. Ulteriore problema, l’alta frammentazione dei gruppi di lupi, che possono trascorrere la maggior parte della propria esistenza senza incontrare un singolo esemplare che non sia in qualche maniera imparentato con il proprio stesso patrimonio genetico. Con conseguenze chiaramente deleterie nel passaggio della torcia alla successiva generazione. Il che lascia intravedere un futuro tutt’altro che roseo dal punto di vista ecologico, soprattutto quando si considera l’importanza rivestita anche da piccoli gruppi del carnivoro nel contenere la popolazione dei topi dalla testa grande, potenziali distruttori del sostrato ambientale a cui essi stessi risultano così strettamente associati. Nella definizione di un sistema strettamente interconnesso, a cui oggi sappiamo di poter aggiungere le piante di Kniphofia, mai fatte figurare in precedenza all’interno della complicata equazione. L’attività di consumo del nettare in questione è stata infatti dimostrata, tramite l’attività di osservazione di sei esemplari durata due mesi nella primavera del 2023, come capace di occupare i suddetti per una parte considerevole della propria giornata, con il caso limite di una femmina che trascorse in un caso due ore e mezzo nella ricerca e consumo sistematico dei singoli fiori. Senza dubbio fornitori di utili supplementi e fibre nella dieta monotona dei lupi, mentre la pianta madre riusciva a trarne essa stessa un beneficio, vista l’inevitabile conseguenza del nettare capace di attaccarsi al pelo del vorace visitatore. Soltanto per venire trasportato fino al ricevente ideale di tale messaggio genetico, ovverosia un diverso membro del limitato pool genetico a disposizione. Offrendo la risposta a quello stesso dilemma che, incidentalmente, coinvolgeva gli altri abitanti di tali verdeggianti distese.
Così il lupo pacificamente sopravvive, traendo un beneficio dalla coesistenza con la pianta e commensalità nei confronti dei babbuini, a cui si associa spesso per usarli come copertura mentre si avvicina alle tane dell’atavico nemico, il roditore. Senza mai attaccare i cuccioli di scimmia, come può fare occasionalmente per fame nei confronti dei recentemente nati dell’antilope balbok (Tragelaphus buxtoni) proprio perché in grado di comprendere istintivamente il valore intrinseco nel possesso di un utile alleato. Davvero, la saggezza dei cani non è meritevole di essere sottovalutata.
Con un futuro attualmente incerto nonostante i molti passi intrapresi per la sua conservazione, tra cui un rigoroso divieto di caccia ed il controllo attento degli ibridi, il lupo etiope rappresenta oggi un’importante risorsa, anche turistica, per il suo paese. Ragion per cui la scoperta di Sandra Lai e colleghi, pubblicata in un recente studio della rivista Ecology, rappresenta un’ulteriore quanto valida presa di coscienza su quanto complessi, e non sempre evidenti, possano essere i meccanismi di sopravvivenza sfruttati da una singola specie. E la difficoltà di scorgere, talvolta, un metodo efficace per tornare all’equilibrio che nei tempi antichi aveva permesso agli animali di prosperare, inclusi i canidi che in base agli studi condotti emigrarono dall’Europa verso l’Africa fino a cinque volte a partire dal periodo del Pleistocene. Molto prima dell’inizio dell’attuale Antropocene, ovvero, quando il più potente e pericoloso tra i padroni avrebbe iniziato la propria ripida ascesa tra i due continenti. Vigente la conquista di ogni singola risorsa, spazio disponibile o patrimonio Preistorico della natura. Inclusi i fiori sgargianti di Kniphofia e tutto il loro contenuto dolciastro, proprio per questo fin da tempo immemore l’oggetto di un complesso, non sempre chiaro senso di latente nostalgia esistenziale.