Immaginate ora se SOLTANTO le montagne che abbiamo scalato, le stelle che abbiamo correttamente identificato, gli animali di cui possediamo cognizioni approfondite e le civiltà che hanno lasciato un numero sufficiente di reperti, fossero effettivamente menzionate nei testi di riferimento, sia per principianti che durante i rispettivi corsi universitari. Impossibile, vero? Eppure è proprio questo che succede, fin dal 1986, ai livelli più alti della biologia molecolare. Non perché l’importante scoperta fatta quasi per caso in quell’anno da Leonard Rome e Nacy Kedersha appartenga ad una disciplina di confine, o si basi su illazioni prive di fondamento. Stiamo nei fatti parlando, d’altronde, di una presenza fisica e osservabile con la giusta attrezzatura, come fatto nel corso delle ultime quattro decadi da un numero senz’altro significativo di specialisti. Tutt’altro che un UFO dunque, benché ne abbia in un certo senso l’aspetto. O per usare la metafora preferita dai due autori dello studio rivelatore, quello di un vault, tipico termine multi-uso in lingua inglese che può riferirsi alternativamente alla volta di una cattedrale, quella di una cripta o per antonomasia “uno spazio vasto e sotterraneo”, come ben sanno gli appassionati della serie di videogiochi Fallout. Una creazione messa in atto quindi, dai meccanismi dell’evoluzione, per uno scopo ben preciso e che vorrebbe in via teorica custodire qualcosa, come dimostrato dalla grande cavità interna. Relativamente parlando. Già perché l’espressione “mastodontico” talvolta riferita a tale componente dei mattoni basici dell’esistenza è in realtà del tutto relativa, con riferimento agli altri agglomerati proteici che galleggiano nel citoplasma della cellula, tra tutti l’essenziale ribosoma che ha funzione di tradurre le istruzioni ricevute dall’RNA messaggero. Rispetto a cui, con i suoi 34 nanometri di dimensione, il vault risulta tre volte più grande, pur senza rivaleggiare i veri e propri organelli di tale contesto, quali mitocondri, apparato del Golgi o perossisomi, la cui estensione viene misurata in micrometri e risulta per ordini di grandezza più imponente. Ciò che d’altra parte colpisce a proposito della questione è l’ubiquità di tale controparte, che negli eucarioti ove è presente (entro cui figura, chiaramente, l’uomo) si presenta per più di 10.000 volte in una singola cellula, per un gran totale probabile, nel nostro caso, di 160 quadrillioni di esemplari all’interno di un’intero organismo. Il che lascia intendere che debba necessariamente possedere un ruolo di una certa importanza. La natura abborrisce lo spreco di spazio, giusto? Ebbene, se così davvero fosse, bisognerebbe capire perché non ne siamo stati ancora informati…
Dopo il periodo in cui il Prof. Roma ha lavorato all’Università della California assieme alla sua dottoranda ed assistente Kedersha alla non semplicissima questione d’identificare, quantificare e connotare l’impossibile astronave, i due avrebbero dunque preso strade differenti. Con il primo, personaggio certamente non privo di una significativa auto-ironia, destinato a coltivare l’immagine implicata dal soprannome di Vault-Guy (il tizio del V.) così ossessionato dalla faccenda, almeno sulla carta, da portare sempre nel portafoglio un’elaborazione grafica della particella, da mostrare ad eventuali colleghi incontrati nel corso della giornata, al fine di chiedere la loro opinione su quale funzione potesse a loro avviso assolvere all’interno degli esseri viventi. Ormai in pensione dalla sua attività d’insegnamento benché ancora attivo nella ricerca, avrebbe dunque preso l’abitudine di scherzare: “L’unica funzione inconfutabile del vault è stata quella di permettermi di pagare il college ai miei tre figli”. Il che, formalmente parlando, non è poi così lontano dalla verità. Prodotta in base a studi successivi da una proteina chiamata MVP (Major V. Protein) esso è costituito per il 70% da strutture assemblate simmetricamente di tale elemento, con la rimanente parte rappresentata dai due enzimi vPARP e TEP1. Struttura responsabile della sua scoperta soltanto in tarda epoca moderna, vista la difficoltà di ottenere un contrasto chimico da usare con le proteine, che comunemente appaiono soltanto come una macchia grigia per gli strumenti ottici abbastanza potenti da rilevarle. Con un altro fattore responsabile a tal proposito: la sua mancata formazione, non del tutto casuale, nei tipici organismi usati come modello negli studi genetici, tra cui molti nematodi, il moscerino drosophila, diverse specie di lievito. Questo perché, in linea di principio, gli scienziati genetici hanno cominciato i propri studi a partire da creature con un codice genetico piuttosto breve, predisposte a riprodursi rapidamente e perciò inclini all’eliminazione del “superfluo”. Lo stesso Roma avrebbe dimostrato d’altra parte, tramite l’inibizione farmacologica della formazione del vault in alcuni topi di laboratorio, come la vita di questi ultimi sarebbe occorsa in maniera indistinguibile dai loro fratelli, fatta eccezione per un’incidenza leggermente maggiore di talune tipologie di cancro, forse una mera conseguenza collaterale della terapia in questione. Il che ci spinge, per la questione in oggetto, verso il reame delle pure ipotesi. L’associazione topologica della particella con i pori situati nella membrana del nucleo cellulare, punti di passaggio per l’acido ribonucleico con le sue importanti informazioni per la vita, sembrerebbero supportare l’idea che il vault possa in qualche modo contribuire alla decodifica analogamente ai ribosomi. O possa essersi occupato di questo nel misterioso antenato comune di una buona fetta della vita eucariota terrestre, prima che l’evoluzione lo lasciasse indietro. Altre funzionalità ipotizzate, con analoghe inferenze, hanno associato la struttura in questione alla resistenza infettiva, l’invio di segnali tra le cellule, l’autofagia di zone compromesse. Difficile resistere alla tentazione, in effetti, di qualificarne l’esistenza come contromisura di un qualche virus a noi ignoto, ormai scomparso da tempo. E che potrebbe anche, un giorno, fare il suo ritorno come lo spirito sopìto di un antico Male.
Dal punto di vista tecnologico, nel frattempo, la situazione è diventata interessante. Questo per il modo in cui, in uno studio pubblicato nel 2014, Roma ha dimostrato di poter sintetizzare artificialmente l’incomprensibile capsula, mediante l’utilizzo di tecniche di elaborazione genetica molecolare in talune specie d’insetto. Il che, potendo disporre di una quantità pressoché illimitata di simili apparati cavi, ha posto la base di possibili utilizzi futuri: i vault potrebbero ad esempio essere impiegati come reagenti per una qualche medicina contro il cancro. Oppure veicolare sostanze chimiche capaci di contrastare la contaminazione delle acque. Entrambe possibilità interessanti, che meriterebbero di essere raccolte dalla futura generazione di ricercatori. Il che potrebbe risultare più complesso del previsto, vista l’ostinata tendenza, già citata in apertura, da parte della scienza accademica a ignorare totalmente l’intera faccenda. Quasi come se in assenza di una soluzione, non ci fosse alcuna gloria nella citazione del teorema fondamentale. Un mattone nondimeno significativo, dell’importante struttura di sostegno che costituisce un singolare pilastro dell’esistenza.
E se il vault sembrasse solamente vuoto, costituendo l’ottimo e perfezionato contenitore di quell’insostanziale essenza spezzettata in infiniti componenti, l’Anima stessa di noialtri, esseri viventi?