L’anacronistico missile antinave scagliato all’indirizzo della flotta dei samurai

Nei confronti subiti fino a quel momento, il nemico sembrava essere qualcosa di diverso dall’umano. Creature in abiti sgargianti, con maschere demoniache e spade ricurve, insegne simili a splendenti mongolfiere in mezzo ai venti. I guerrieri giapponesi temprati dal lungo conflitto di reciproco annientamento, che storicamente avrebbero preso il nome di Sengoku, erano giunti sulle coste peninsulari con una singola ed imprescindibile direttiva: guadagnare ad ogni costo gloria per i propri clan, dinnanzi all’occhio attento del loro taiko (reggente) Hideyoshi, l’uomo che singolarmente era riuscito ad appianare l’odio interno della sua nazione. Per volgere tali energie residue all’indirizzo di coloro che, in quell’epoca corrispondente grosso modo al nostro Rinascimento, si trovavano al termine di un lungo periodo di pace. Così la splendente civiltà del regno di Joseon, all’apice della cultura e delle arti coreane, si trovò dinnanzi all’obiettivo impossibile tali diavoli pronti al suicidio apparentemente invincibili sul campo di battaglia, negli assedi e nelle imboscate. Contro cui l’unica strategia efficace sembrava essere colpire i treni dei rifornimenti, o ancora meglio, i loro bastimenti all’interno dello stretto mare d’Oriente.
La strategia iniziò ad essere implementata già nel 1592, poco dopo la devastazione di Busan che avrebbe aperto la strada ai giapponesi verso i centri del potere di Hanseong e Pyongyang. Quando la flotta di Jeolla guidata dal leggendario ammiraglio Yi Sun-sin si parò innanzi alle atekebune e sekibune provenienti dall’aggressivo arcipelago nella baia di Geojedo, implementando con successo una manovra di accerchiamento. E dando inizio ad uno dei bombardamenti di artiglieria navale più significativi che il mondo avesse visto fino ad allora, grazie ai cannoni di vario calibro che avevano saputo posizionare sulle loro navi più pesanti e dunque stabili sul pelo delle onde. Con sfere di ferro, pietra e cariche a mitraglia, ma anche un qualcosa di particolarmente distintivo per l’epoca, l’imponente dardo in legno con punta e alette di piombo, che i cronisti coévi concordavano nel definire una sorta di “freccia” sovradimensionata. Ma che a un occhio moderno sarebbe sembrato, senza ombra di dubbio alcuno, un’imitazione piuttosto fedele del tipico missile antinave Harpoon. Un proiettile preciso chiamato daejanggunjeon, capace di volare fino ad un chilometro e 200 metri di distanza con un arco elegante. E soprattutto, agevolmente in grado di perforare l’armatura di bambù delle mekrabune ovvero versione nipponica delle navi tartaruga, da cui gli equipaggi potevano sparare rimanendo al sicuro dalle frecce continentali. Per la prima volta l’obiettivo nel bersagliare uno scafo non sembrava più esser quello di annientare l’equipaggio, bensì affondare nella realtà dei fatti l’intero vascello, che finiva a inabissarsi come nelle narrazioni epiche dell’antica battaglia di Dan-no-ura. I cui partecipanti della nazionalità degli aggressori, cinque secoli prima di quella data, erano annegati nello stretto di Kanmon. Reincarnandosi, secondo una leggenda popolare, in affamati granchi sovrannaturali…

L’utilizzo delle armi da fuoco e particolarmente dei cannoni, d’altronde, a quell’epoca non era certo un concetto nuovo per i militari coreani. Che ne avevano conosciuto la potenza fin dal XIV secolo, quando il re Kongmin Wang della precedente dinastia Goryeo, secondo le cronache dell’epoca, ne aveva chiesto in dono una certa quantità al primo imperatore dei Ming, Chu Yuan-Chang. Ottenendo una risposta positiva dall’antico alleato strategico ed a quanto si narra, un tipo di bombarda che venne chiamata localmente chongtong, capace di “Scagliare frecce verso la collina Nam-kang dalle mura del tempio Sun-ch’on Sa, che si piantavano nel terreno fin quasi all’impennaggio finale.” Parlando già allora di un munizionamento non propriamente convenzionale, almeno in parte agevolato dal perfezionamento tecnico del gyeongmok, un blocco di legno posizionato dietro il pezzo di carta con la polvere da sparo, che incrementava portata e potenza del proiettile fuoriuscito dalla bocca da fuoco. Nei laboriosi conflitti combattuti coi pirati sino-giapponesi Wokou, per l’intero lungo periodo dei secoli a seguire, gli artiglieri coreani divennero quindi celebri per le frecce grandi come pali che riuscivano a scagliare all’indirizzo degli avversari, talmente potenti da poter trapassare letteralmente da parte a parte il doppio scafo di qualsiasi imbarcazione. O persino conficcarsi, come dimostrato da archeologi sperimentali in tempi recenti, per 80 cm nel granito a una distanza di 400 metri, con una potenza più che sufficiente ad abbattere le mura di una roccaforte di epoca pre-moderna. Qualcosa di simile, effettivamente, ai dardi infuocati bo-hiya scagliati dalle truppe samurai grazie a maneggevoli colubrine individuali, ma molto più devastante nell’obiettivo per cui avevano trovato uso in battaglia. Esiste una dicotomia, a tal proposito, nella concezione dissimile delle armi da fuoco tra Giappone e Cina (a quel tempo alleata della Corea) per cui mentre il primo, implementando le tecnologie degli archibugi e moschetti acquistati dai mercanti europei, tendevano a favorire l’impiego di tali implementi come una sorta di evoluzione della katana, da dare in uso a truppe attentamente addestrate che potessero scendere in campo e conquistare le posizioni. Mentre nei paesi dove il suo utilizzo era stato perfezionato localmente, l’idea era quella di gestire bocche da fuoco più grandi, grazie ad equipaggi con ruoli rispettivi cui poter assolvere ad ogni ciclo di sparo. Così portata fino alle sue estreme conseguenze, nelle elaborate e differenti versioni del chongtong coreano, prodotto in varie dimensioni ciascuna denominata in base ad un carattere dell’alfabeto del cheonjamun, il “Classico dei mille ideogrammi”: dal Se-Chongtong (fucile individuale) passando per il Hyeonja-Chongtong dal calibro di 8 cm e fino al Cheonja-Chongtong che ne raggiungeva 13, spesso considerato l’ideale per lanciare le letali frecce penetranti daejanggunjeon, con l’effetto di gettare scompiglio tra le fila nemiche anche in una battaglia di terra o durante il corso di un assedio. Altre innovazioni tecnologiche coreane includevano, nel frattempo, il bullangipo, un ingegnoso tipo di cannone dalle dimensioni tra il piccolo ed il medio calibro, dotato di un meccanismo a retrocarica con una camera di sparo rimovibile, che poteva essere preparata in anticipo con polvere e proiettili. Procedendo quindi a cambiarla ripetutamente, durante una battaglia, per una cadenza di tiro notevolmente aumentata.

La battaglia navale di Geojedo diede dunque il senso di quello che sarebbe stato il reciproco scambio conflittuale a seguire. Con i giapponesi che non smisero mai di avanzare durante il caotico conflitto della prima guerra Imjin (1592-93) mentre gli abitanti della penisola continuavano a bersagliare con successo parte delle loro flotte e navi da sbarco. Ma non c’era modo, a quanto sembrava, di frenare l’irresistibile sete di sangue dei samurai. Neppure un fallimentare tentativo di stabilire una fragile pace, sabotato dalla reciproca concezione del rispettivo paese come implicitamente superiore all’altro anche a causa dell’intercessione cinese, non riaprì il conflitto armato contro il regno di Joseon nel 1597, destinato ad esaurirsi solamente con la morte del reggente shogunale Hideyoshi, nonché capo del Giappone, nel settembre dell’anno successivo. Che avrebbe portato a nuove lotte intestine per i diavoli provenienti da Oriente, ed al termine di quell’ultima catarsi sull’insanguinata piana di Sekigahnara (1600) una tranquillità destinata a durare secoli tra i tre grandi paesi dell’Asia Orientale. La fine di un’epoca sotto molti punti di vista, e la fine delle traiettorie disegnate da chi sognava missili capaci di oltrepassare l’orizzonte. E soltanto molte generazioni dopo avrebbe, finalmente, scoperto quanto terribili potessero risultare simili implementi guerreschi.

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