Da serbatoio per il latte ad astronave anfibia: un mezzo scintillante per girare i continenti

Appare ormai un miraggio lontano, sia culturalmente che economicamente, l’ottimismo in larga parte tecnologico degli anni ’80 e ’90. All’apice dell’epoca analogica, quando ogni problema appariva risolvibile, le distanze continuavano ad accorciarsi e lo spazio appariva progressivamente più vicino. L’Orbiter incredibilmente simile a un aereo dello Space Shuttle era una presenza ricorrente nei programmi televisivi e sui libri tematici, percorrendo l’immaginazione dei creativi di un pianeta sempre solitario, ma potente nelle proprie convinzioni presenti e future. In questo contesto si era mosso Rick Dobbertin di Madison, Wisconsin, uno dei progettisti di Hot-Rod maggiormente celebrato nel mondo culturalmente statunitense delle auto personalizzate per comunicare un senso di potenza ed eclettismo, con motori parzialmente a vista, prese d’aria scenografiche e livree aggressivamente racing da qualsivoglia angolazione si tentasse di approcciarsi al veicolo di turno. Famosa la sua Chevrolet Nova risalente agli anni ’60 pesantemente modificata nel 1982, trasformata in un bolide azzurro brillante che non avrebbe sfigurato in una puntata di Hazzard o Supercar con David Hasselhoff. Un traguardo ancor più centrato con il suo capolavoro del 1986, l’eccezionale Pontiac J2000 gialla ed arancione col vistoso “fungo” sul cofano, creata al fine d’ispirare un’intera generazione di corridori Pro-Street, antesignani del mondo collegato all’estetica internazionale del Fast & Furious. Raggiunta dunque l’inizio della decade successiva, l’ormai quarantenne e sposato da un anno Dobbertin decise di tentare qualcosa di completamente nuovo; assieme alla consorte Karen, con cui stava vivendo un periodo di disamore, avrebbe tentato il tutto per tutto rivitalizzando il rapporto grazie a un viaggio avventuroso dalle proporzioni totalmente prive di precedenti. Percorrendo una strada accessibile soltanto a lui, e pochi altri: la costruzione di un fantastico veicolo realizzato ad-hoc, frutto di un incredibile investimento di soldi, capacità e tempo. Il suo nome era DSO (Dobbertin Surface Orbiter) e l’aspetto, in apparenza, proveniva direttamente da un romanzo di fantascienza. Affusolato come uno Sputnik nonostante la presenza di sei ruote in tre assi, esso manteneva in realtà la forma dell’oggetto da cui aveva tratto origine: null’altro che un serbatoio stradale per il latte bovino risalente al 1959, acquistato ad un prezzo relativamente conveniente dalla compagnia di distribuzione Heil. All’interno del quale, il mondo stesso ormai appariva a portata di mano…

L’approccio era semplice ed al tempo stesso avveniristico. Come un costruttore contemporaneo di case-container, l’ingegnoso costruttore di automobili aveva concepito il DSO come un’evoluzione del concetto di camper, rigorosamente a tenuta stagna affinché potesse muoversi con pari efficienza sulla terraferma ed in mezzo ai flutti marini. Dotato di un impianto a diesel della General Motors da 6,5 litri concepito per l’impiego marino, dalla capacità riportata di erogare all’incirca 250 cavalli, il mostro stradale della lunghezza di 9,9 metri di lunghezza presentava due postazioni di guida con relativi volanti, uno dedicato a controllare lo sterzo con trazione 4×4 per il viaggio stradale, l’altro collegato direttamente al timone. Dobbertin, che in un’intervista tramandata su Internet riportava scherzosamente di aver messo nel suo veicolo “Ogni cosa INCLUSO il lavandino” (riferimento ad un modo di dire statunitense) aveva previsto in effetti di vivere all’interno di quel marchingegno per un periodo di circa un anno, mentre effettuava con la moglie una completa circumnavigazione di questo mondo. Ma i problemi, a più livelli, iniziarono a presentarsi da subito, con la coppia ritrovatosi costretta a spendere molto più del previsto, dovendo tra le altre cose ampliare il loro garage a Syracuse, New York perché il veicolo semplicemente non entrava all’interno. Tanto che l’attesa partenza, capace di attirare un’attenzione mediatica non trascurabile, avvenne nel 19 dicembre 1993 presentandosi alla coppia come l’occasione di voltare finalmente pagina intraprendendo la parte divertente della loro epica impresa, denominata non senza perizia comunicativa Project Earth-Trek. Oltre 5.000 persone erano presenti al varo nell’Atlantico (“Di cui almeno 4.000 erano lì per vederci affondare” scherza Dobbertin”) ma il mezzo anfibio si dimostrò almeno inizialmente del tutto all’altezza delle aspettative. Per qualche tempo. Giacché i problemi cominciarono al raggiungimento dell’isola di Puerto Rico, quando un parziale capovolgimento dello scafo lungo e stretto richiese un salvataggio della Guardia Costiera. Quindi, una volta raggiunto il molo, vennero fermati e perquisiti dalla DIA, che sospettava potessero essere dei contrabbandieri di droga. Una volta raggiunta la Colombia, la coppia si trovò nuovamente nei guai, quando un gruppo di guerriglieri armati di fucili AK-47 li assaltò sulla costa, soltanto per rilasciarli in seguito in cambio di una serie d’innocenti foto ricordo. L’avveniristico natante, quindi, stabilì un record destinato a entrare nella storia, diventando la prima ed unica automobile ad attraversare il canale di Panama, contingenza commemorata in una serie di fotografie e video che sembrano uscite da un film di genere di quegli anni a loro modo sregolati & selvaggi. Il viaggio, completo di numerose complicazioni tecniche, si prolungò dunque fino alla durata di tre anni e 28 paesi, quando la coppia decise di tornare finalmente a Syracuse negli Stati Uniti. Ma il rapporto tra i due, a quanto si riporta, era ormai definitivamente incrinato e Karen chiese, poco tempo dopo, il divorzio.

Pur non tentando più imprese della portata del Project Earth-Trek, Dobbertin avrebbe continuato a dare seguito alle sue passioni, finanziate largamente tramite la vendita occasionale dei veicoli che l’avevano reso famoso. Lo stesso DSO, dopo essere stato messo all’asta più volte, venne finalmente trasferito nel 2004 ad un collezionista privato di Chicago per una cifra ignota, ma almeno in apparenza sufficientemente cospicua da tentare la creazione di un successore. Ecce, allora, la giallissima Hydrocar del 2005, un mezzo ancora una volta totalmente originale, che il suo creatore vedeva come una versione anfibia del concetto di hypercar, costruita senza risparmio e con al centro l’idea di esclusività e prestigio. Letterale mostro di potenza con motore Chevrolet Merlin da 767 cavalli, capace di spostarsi a velocità sostenute in entrambe le configurazioni e convertibile mediante l’attivazione di una serie di pratiche leve. Nuovamente sposato, con la seconda moglie Mary che indica sul sito ufficiale come socia in affari, lo sfrenato inventore decise tuttavia di abbandonare le proprie ambizioni prima che degenerassero nella maniera già sperimentata in precedenza. Mettendo all’asta, per la prima volta, la sua nuova creazione nel 2011 nel tentativo di ricavarne la cifra apparentemente propizia di 777,000 dollari. Per riuscire, infine, a monetizzarla nel 2021 per una cifra ignota ma realisticamente molto inferiore.
Un epilogo ben collaudato per chi aveva trascorso una significativa parte della sua carriera pregressa creando hot-rod su commissione. Ma che non può fare a meno di suscitare un vago senso di opportunità sfumate, visioni di un mondo in cui sarebbero i creativi ad ottenere l’attenzione e sovvenzione delle moltitudini. Che tendono a vedere ciò che è nuovo come un affronto alle convinzioni ereditate. Ed il mare come una barriera invalicabile, invece che l’opportunità di scoprire nuovi orizzonti. Benché le ruote, come ben sappiamo, non possano fare a meno di continuare a girare…

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