E voleremo, chiaramente. Sugli ingorghi cittadini, sui problemi quotidiani, sui paesaggi riparariani e gli alti dirupi montani. Con un tocco lieve dei comandi, più che mai dissimili da quelli di un moderno aeromobile, risultando assai più facili da utilizzare. Dopo tutto, chi ha mai voglia di prendere un brevetto? Quando può bastare la patente, al fine di verificare il senso di accuratezza e responsabilità, nonché attenzione al traffico e le circostanze, che servirebbero per impiegare un’automobile capace di allontanarsi dal restrittivo “suolo” terrestre. Questo il sogno ed una sola la realizzazione, generalmente in grado di configurarsi come un singolo velivolo, con forma e una carrozzeria riconducibili alle familiari quattro ruote delle nostre strade a due dimensioni. Così come realizzato già nel corso degli ultimi 10 anni, dalla compagnia cinese AeroHT, acquisita nel 2013 dal colosso delle auto elettriche di Guangzhou, XPeng. Ma se unisci il tipico quadricottero di una dimensione umana con quel tipo di fonte energetica, piuttosto che più complicati o dispendiosi propellenti, un risultato che dovrai aspettarti e l’autonomia relativamente ridotta, raramente in grado di superare i 45-60 minuti dal decollo. Seguìti da un tempo almeno comparabile necessario a ricaricare le batterie, s’intende. Il che limita nei fatti quella classe di veicoli all’impiego cittadino, o comunque entro una manciata di chilometri dal drone-porto più vicino con collegamento alla rete elettrica. E niente luoghi ameni per il popolo, a meno d’impiegare un tipo d’elicottero maggiormente convenzionale. A meno di disporre di un sistema utile al trasporto e la ricarica del siffatto attrezzo volante… Una… Piattaforma semovente? Di trasporto e rifornimento?
Manifestazione del tutto pratica della rule of cool sembrando uscito in modo trasversale da un telefilm degli anni ’80, il nuovo furgoncino a sei ruote motrici della Xpeng chiamato per l’appunto Ludi hangmu (陆地航母) o “Portaerei terrestre” assolve a tale compito senza dimenticare la lezione americana di mantenere un certo senso dello stile futuristico ed accattivante. Trattandosi nei fatti di una versione pesantemente modificata della monovolume X9 presentata all’inizio di quest’anno, un’auto vagamente simile al Tesla Truck di Musk con 709 Km di autonomia in condizioni normali. E che nell’ulteriore versione dal singolare approccio di utilizzo, a quanto riportato, li vedrà aumentati fino a 1.000 vista la presenza di maggiori batterie a bordo ed un motore a combustione interno per accrescerne le prestazioni, necessari a rifornire una quantità di volte variabile l’agile contenuto pieghevole nascosto nella sede retrostante…
L’idea potrebbe in effetti sembrare scontata, sebbene sia importante sottolineare come fino ad ora, nessuno avesse ancora tentato di realizzarla. Nel mondo dell’ingegneria tecnologica, le soluzioni ibride rappresentano da sempre un compromesso: le macchine volanti, allo stato attuale del fatti sono automobili ingombranti ed elicotteri dalle prestazioni mediocri. Laddove in molte circostanze, sarebbe stato meglio proporre due veicoli distinti, possibilmente in grado di combinare i punti forti di entrambi i mondi. E sarebbe difficile negare, nel caso presente, la praticità con cui tale situazione parrebbe essere stata implementata dai progettisti cinesi del nuovo sistema della AeroHT. Mostrata ufficialmente al pubblico durante la fiera aeronautica di Zuhai all’inizio di novembre, con ipotetica consegna a partire dal 2026, quella che internazionalmente è stata definita come Land Carrier vanta dunque alcuni significativi vantaggi rispetto al suo specifico settore d’impiego. Con il drone propriamente detto, che sembra un adattamento dei modelli X1 o X2 della AeroHT, in grado di piegare i rotori ed essere portato all’interno mediante l’apposito sostegno retrattile nel giro di appena un paio di minuti. E la capacità di caricarsi dal 30 all’80% nel giro di ulteriori 18, tanto da rendere l’impiego del suddetto in un’ampia gamma di circostanze immediatamente più versatile ed efficiente. Pensate, ad esempio, al campo della ricerca scientifica e il rilievo paesaggistico, che sembrerebbero aver costituito allo stato dei fatti una maggior parte degli attuali 2.000 pre-ordini registrati fino ad ora dalla compagnia cinese. Altro aspetto assolutamente sorprendente, il prezzo: stiamo effettivamente parlando, per l’automobile ed il drone combinati e pronti all’uso, di circa 2 milioni di yuan, corrispondenti a 261.000 euro al momento dell’uscita dal concessionario. Una cifra comprensibile quando si considera il prezzo del normale Suv X9, venduto a partire da 45.000 euro in un segmento di mercato dove i prezzi minimi risultano generalmente almeno raddoppiati. E funzionalità in alcun modo compromesse, sebbene appaia ragionevole una semplificazione nel processo burocratico di acquisizione delle certificazioni e standard tecnologici nel contesto asiatico di provenienza. Che fa paura ai produttori occidentali, inutile specificarlo, come ampiamente esemplificato dai nuovi crismi gestionali del protezionismo economico, importante bandiera politica di taluni presidenti statunitensi.
Un peccato, di sicuro, e non soltanto per questioni relative alla libera concorrenza, teorica linfa vitale del capitalismo. Bensì per la maniera in cui la creazione di aree geografiche distinte limita la penetrazione del mercato e la fattibilità internazionale di determinate ventures produttive. Come l’imponente fabbrica recentemente pianificata a Guangzhou, per una robusta produzione in serie della Land Carrier che avrebbe potuto trovare beneficio, almeno in linea di principio, in un suo mercato d’esportazione su scala globale. Provate ad immaginare, a tal proposito, la facilità con cui un tale approccio veicolare combinato potrebbe essere impiegato per sorvolare il Grand Canyon, le cascate del Niagara o i fiordi della Norvegia. Per non parlare di antichi distretti storici nella parte centro-meridionale d’Europa.
Tutte possibilità ancora meramente teoriche, nell’assenza di un apparecchio volante veramente democratico nella difficoltà e modalità d’impiego. Che gli anglofoni amano chiamare flying car, non tanto per la fisica e presunta somiglianza all’automobile propriamente detta. Quanto piuttosto per l’etimologia della parola carry, (tras)portare. In cui la gioia ipotetica di pilotare diventi più che altro un fattore necessario. ma del tutto secondario agli automatismi in gioco e la sicurezza computerizzata delle superfici di controllo. Presupposto che potrebbe aprire le porte del cielo ad una collettività in attesa, che ormai da tempo ha fatto della pazienza prima del decollo una tradizionale parte del suo stile di vita.