La convincente possibilità che il Sacro Graal sovrasti la navata da 625 anni

Una singola vetrina nella più vasta chiesa gotica della città di Valencia, posta in alto in una delle cappelle che fiancheggiano la navata centrale. Nient’altro che uno spazio espositivo, ove campeggia quell’oggetto che potremmo definire alquanto ponderoso e poco pratico all’impiego ideale. Una coppa di pregevole pietra corniola lavorata al tornio, con manici e una base in oro puro. Quest’ultimo elemento, a sua volta ornato da una serie d’imponenti perle candide come la Luna stessa. Tanto che se qualcuno l’avesse mai effettivamente utilizzata per bere, difficilmente egli avrebbe potuto essere un umile falegname della terra di Galilea. Ma forse è proprio questo il punto…
L’umiltà e il principio di magnificenza coesistono da sempre nella rappresentazione iconografica della sacralità cristiana, come un’idiosincrasia alla base del concetto stesso di fede nella Provvidenza e tutto ciò che questo comporta. Poiché se un’intelletto universale governa ogni faccenda e la presunta evoluzione degli eventi, come può essere giustificata la deriva verso l’entropia di colui o coloro che hanno dato un senso alle parole della personificazione stessa di tale Principio? Così preservato, spesse volte, fino all’esagerazione, se è vero che le schegge o chiodi della “vera croce” sono sparse in giro per il mondo in quantità bastante per la costruzione di un intero galeone; che vi sono almeno quattro lance di Longino; tre possibili corone di spine; una mezza dozzina di sudari che riporterebbero l’impronta del corpo del Salvatore. Eppure nulla, in tale ambito, ha raggiunto le vette quantitative di quello che potremmo definire senza ombra di dubbio il singolo oggetto più famoso della religione romana: il sacro calice impiegato, in base alle scritture, dal Figlio in persona durante la storica cena prima del fatale tradimento che l’avrebbe condotto alla crocifissione finale. Quel Graal connesso ad una pletora di miti, che potrebbe essere secondo le divergenti teorie in undici luoghi diversi soltanto in Italia, quattro in Francia, due nel Regno Unito e finanche anche province improbabili come il deserto patagonico dell’Argentina. Per opera di ordini cavallereschi, gruppi di monaci, personaggi leggendari per qualche ragioni trovatosi a colloquio con San Pietro in varie circostanze, che secondo la tradizione avrebbe custodito e trasportato fino al suo rifugio peninsulare questo importante simbolo del suo fondamentale ispiratore. Ed è lì, nel primo secolo, che se ne persero irrimediabilmente le tracce a causa delle persecuzioni ad opera dei Romani, delle generazioni di guerre e conflitti, a causa del rumore di fondo d’innumerevoli miti e leggende popolari che si avvicendarono nel moto senza posa dei secoli intercorsi. Eppure sussistono diverse valide ragioni, per dare credito alla pretesa valenciana più di molte altre precedentemente intercorse…

Tutto ebbe inizio in base alla filiera ufficialmente utilizzata come giustificazione, nell’anno del 257 d.C, durante il pontificato di soli 12 mesi attribuito al papa Sisto II. Fortemente perseguitato, come ancora avveniva in quei tempi difficili, dall’Imperatore Valeriano, al punto che molti dei suoi sottoposti lo aiutarono, in più riprese, a mettere in salvo gli oggetti sacri e le preziose componenti tangibili del culto della Trinità divina. Prima tra tutte l’importante coppa usata per dire la messa dal primo dei papi, incidentalmente quello stesso oggetto che Cristo aveva utilizzato nelle circostanze largamente narrate dai suoi quattro biografi coévi e che molti anni dopo sarebbe giunto a costituire il simbolo e supremo anelito di un’intera tradizione cavalleresca medievale. Il Graal fu dunque dato al diacono spagnolo San Lorenzo, e per suo tramite trasportato a Huesca nella regione di Aragona, non troppo lontano dall’ombra dei Pirenei. Dove rimase per lungo tempo fino alla temibile venuta dei Mori, che durante la loro originale conquista della penisola iberica nell’ottavo secolo, spinsero la comunità ecclesiastica locale a portare il sacro oggetto in salvo tra i monti, entro le mura del monastero di San Juan de la Peña. Momento successivamente al quale, con la partecipazione diretta dei potenti, i suoi movimenti diventano più chiari: dapprima quando il re d’Aragona Martino I detto l’Umanista se ne appropriò nel 1399, per metterlo all’interno della propria residenza a Saragozza, il Palacio de la Alfajería. Quindi il suo successore Alfonso V il Magnanimo, nel 1424, lo pose all’interno delle mura del palazzo reale di Valencia, dove rimase per soli 13 anni. Questo perché alla partenza del sovrano per la conquista del regno di Napoli, l’oggetto venne dato come garanzia alla cattedrale in qualità di garanzia per un prestito, ed in seguito lasciato ad essa come parziale pagamento del debito contratto nel corso di tale dispendiosa campagna militare. Ed è lì, come possiamo facilmente constatare, che si trova tutt’ora.
Utilizzata a quanto si narra per le ritualità del Giovedì Santo fino al XVIII secolo, la coppa che potrebbe essere il Graal fu infine posta sotto vetro a seguito di uno spiacevole incidente, durante cui sarebbe caduta in testa ad un fedele causandone l’improvvida dipartita. Per essere nuovamente spostata soltanto temporaneamente ed in una manciata di occasioni, come l’incendio che devastò in parte l’antica chiesa durante la guerra civile spagnola nel 1931.

Ciò che colpisce dunque maggiormente in questa potenziale manifestazione di uno degli oggetti più sacri di tutta la cristianità è la maniera in cui diverge dal senso comune, che avrebbe voluto i figlio di Dio come una persona profondamente umile, così come avrebbe dovuto idealmente presentarsi ogni oggetto direttamente connesso alla sua vita terrena. Chi non ricorda, ad esempio, la coppa di semplice legno utilizzata nel terzo film della serie Indiana Jones, un’impossibilità pratica oltre che archeologica, evocata nella finzione cinematografica per associazione al mestiere compiuto dal suo proprietario, fino al monumentale evento storico che avrebbe portato alla sua condanna… Laddove i vangeli parlano in effetti di un’ultima cena tenutasi a casa di San Marco Evangelista, come celebrazione della ricorrenza della Pasqua ebraica, il che avrebbe fatto del calice in corniolo in questione quella che oggi chiameremmo coppa per il Qiddush. Oggetto spesso di pregio, soprattutto nelle famiglie abbienti, che realisticamente avrebbe potuto trovarsi realizzata in quel particolare materiale all’epoca dell’originale vicenda cristiana (ricordando, chiaramente, che le parti in oro della reliquia costituiscono un’aggiunta successiva). Aggiungete a tutto questo le ricerche archeologiche compiute nel 1959 da Antonio Beltran con il beneplacito dell’arcivescovo di Valencia coévo, Marcelino Olaechea, che confermarono la provenienza ed epoca del calice come coerenti alla sua leggenda. Così raggiungere quello stato di plausibilità effettiva per il caso valenciano che tanto spesso, per oggetti simili nel corso dei secoli, risulta comparativamente condizionato da una quantità di eminenti lacune. E chi può dire alla fine quale sia la verità? Del resto in Spagna, presso il museo del Panteon di San Isidoro a León, esiste un altro possibile Santo Graal, dotato di vicende non meno plausibili connesse ai suoi remoti trascorsi. Forse come tentarono di dimostrarci anche Harrison Ford e Sean Connery, il vero sacro calice è soltanto quello che possiamo trovare da soli, grazie allo spirito d’introspezione che caratterizza il funzionamento della mente umana. Ma gli errori, in determinate circostanze, potrebbero costarci molto più di quanto potremmo essere inclini ad immaginare.

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