Ci vediamo all’altro lato, prendo il ponte. Si, ma quale ponte? Quello sospeso che si estende da una torre con la merlatura geometricamente indistinguibile da quella di un lieto castello? O l’arnese simile a un’oblunga scatola, che fa ombra ai pesci che si tappano le orecchie al passaggio dei treni? D’altra parte, resta sempre possibile fare affidamento al caro vecchio carro a motore, impiegando la semplice striscia d’asfalto parallela. O perché no, già che ci siamo, passare al di sotto…
Le ley lines o dorsali energetiche di prateria sono l’elemento del folklore anglosassone che consiste in punti di collegamento invisibili, tra diversi punti d’importanza spirituale, ove la siepe divisoria tra i mondi tende a diventare più sottile, e fatti straordinari possono trovare la ragione di verificarsi. Da un certo punto di vista, esse costituiscono la percezione comunitaria dell’esistenza di zone focali, da un punto di vista sociale o storico, ove le cose avvengono secondo regole singolari o condizionate da fattori non del tutto evidenti. Se in tutta l’Inghilterra dunque, esistesse una ley line degli attraversamenti di un corso d’acqua, essa potrebbe senza dubbio collocarsi a Conwy, in Galles. Ove nello spazio di qualche centinaio di metri, campeggiano quattro strutture sopra e sotto le acque con la stessa identica funzione; ciascuna creata, a suo modo, per un’ottima ragione pratica; e ciascuna l’espressione di canoni ingegneristici del tutto frutto della propria rispettiva epoca di appartenenza. All’ombra, neanche a dirlo, di un qualcosa di assolutamente antecedente, essendo databile al remoto 1289. Che non è il più grande, ma forse quello maggiormente caratteristico, tra i numerosi castelli costruiti dal grande architetto savoiardo James de Saint-Georges, per conto del re conquistatore Edoardo I. Colui che di ritorno dalle crociate dopo la morte del padre ed essendo stato incoronato presso l’abbazia di Westminster, intraprese presto una campagna militare nelle terre ostili del principe Llywelyn ap Gruffudd, e proprio in esse finì per essere assediato nel 1295, all’interno del solido e maestoso forte fluviale alla foce del fiume Conwy. Dalle pareti in grado di svettare sopra la scogliera, rispecchiandosi nelle acque turbolente, come parte integrante delle mura di un’intera città murata nello stile di una bastide, la classe principale d’insediamenti francesi alla metà del XIII secolo europeo. Ciò che tali personaggi non potevano sapere, tuttavia, è che dove il Medioevo fece scempio della sicurezza individuale tramite l’accrescimento dei venti di guerra, in un’epoca di maggior pace gli ingegneri vittoriani avrebbero trovato l’occasione di creare il primo punto di collegamento. Per il tramite del “Colosso” costruttore d’infrastrutture Thomas Telford, così chiamato per analogia con la statua storica di Rodi (il cui eponimo suonava simile, per l’appunto, alla parola inglese roads, strade) le cui umili origini come figlio di una povera famiglia scozzese non avrebbero impedito di proseguire gli studi e trasferirsi a Londra, dove avrebbe conosciuto alcuni degli architetti maggiormente rinomati della sua Era. Dando inizio a una carriera che lo avrebbe portato a costruire un’ampia varietà di ponti, tra cui alcuni dei primi esempi in cui l’intero arco centrale risultava sospeso ad una letterale striscia catenaria concava in prossimità dell’orizzonte…
Coinvolto per la prima volta per un sopralluogo nel 1810, soltanto nove anni dopo la formazione del Regno Unito d’Inghilterra e Irlanda, Telford individuò dunque il modo ideale per costruire un ponte in prossimità del castello di Conwy. Non ponendolo a rispettosa distanza di sicurezza, il che sarebbe stato d’altra parte logisticamente poco pratico vista la collocazione della strada tra Londra e Holyhead, bensì esattamente al di sotto delle mura stesse, il che risultava realizzabile a patto di fornire alle strutture di sostegno un’estetica del tutto degna delle circostanze. Mansione forse non semplicissima, ma che sarebbe stata realizzata con indubbia perizia mediante l’inclusione di merlature e feritoie nelle torri che si ergevano alle due parti estreme del fiume, mentre le catene stesse andavano a sparire come niente fosse nella nuda roccia dello sperone sottostante al castello. Il risultato finale, lungo 99,5 metri e portato a termine tra il 1822 e il 1826, sarebbe stato dunque uno dei primi e più lunghi ponti sospesi al mondo, dopo quello ancor più esteso costruito dallo stesso autore a Menai, soltanto tre anni prima. Una struttura la cui indubbia utilità trovò espressione nella residenza degli addetti al pedaggio, che imponevano un prezzario particolarmente strutturato in base al passaggio di carrozze, carri mercantili o macchinari a vapore, potendo sempre rifiutare l’accesso a veicoli ritenuti eccessivamente pesanti. Il che sarebbe a un certo punto necessariamente andato incontro a un cambiamento, con l’introduzione dei treni. Spostandoci in avanti dunque di un semplice ventennio, ritroviamo questo stesso luogo come svincolo strategico per la strada ferrata di Llandudno, ed il rinnovato coinvolgimento di una figura di spicco dell’ingegneria britannica agli albori dell’Era Moderna. Costui fu Robert Stephenson, il “Padre delle Ferrovie” (davvero, i Vittoriani amavano i soprannomi ad effetto) costruttore tra le altre cose delle locomotive più veloci dei suoi tempi, che all’inizio degli anni 1840 aveva risposto alla chiamata della Chester & Holyhead per la costruzione di un ponte per binari giusto accanto a quello sospeso del suo insigne predecessore scozzese. Il risultato fu qualcosa di altrettanto notevole, ed almeno in apparenza fuori dal contesto, giacché impostato sulla base di un progetto particolarmente innovativo, invenzione dello stesso Stephenson. Il ponte tubolare, in altri termini, creato con ferro battuto (un rudimentale tipo d’acciaio architettonico) in base agli stessi canoni dell’esempio non più esistente del Britannia Bridge a Menai, successore anch’esso di una precedente opera di Telford. Una letterale scatola oblunga, lunga questa volta 141 metri, ma soprattutto concepita per sostenere il peso di qualsiasi tipo di bastimento. Nonché dotata di torri dalla forma di un castello alle due estremità ancor più imponenti dell’esempio del 1820, previste nel caso in cui si fosse reso necessario tendere ulteriori catene di sostegno; eventualità, in seguito, dimostratasi un caso di eccessiva prudenza. L’originale creazione venne dunque completata dopo due anni di lavori nel 1848, ed aperta al traffico entro l’anno successivo, senza nessun tipo d’interruzione degna di nota fino all’epoca presente. Il che avrebbe idealmente risolto il problema anche per le attuali generazioni e quelle future, previa un’adeguata manutenzione, non fosse stato per la deviazione della preferenza popolare verso il mezzo familiare privato. Ovvero l’automobile, che ogni paesaggio storico tende inevitabilmente a fagocitare…
Il primo ponte stradale a Conwy di epoca Contemporanea trova dunque collocazione nel 1958, quando il Ministero dei Trasporti inglese realizza l’impossibilità di continuare a utilizzare il viadotto sospeso di oltre un secolo d’età per far passare centinaia di pesanti veicoli a motore ogni giorno. Il che diede il via, alquanto prevedibilmente, ad un’ipotesi di demolizione per la pre-esistente e ormai pericolante struttura, se non che il prestigioso Fondo Nazionale per gli Edifici Storici sarebbe intervenuto anche su richiesta della popolazione locale, al fine di preservare a sempiterna memoria tale struttura rappresentativa dei trascorsi storici gallesi. Al che i tre ponti, lietamente paralleli, avrebbero iniziato la propria lunga convivenza, pur senza bastare nonostante tutto alla risoluzione del fondamentale problema. Giacché l’aumento del pendolarismo e l’importanza sempre crescente della strada nazionale A55 avrebbe portato, con il procedere delle decadi, ad un aumento esponenziale del traffico tra i vicoli del sovraffollato borgo medievale di Conwy. Dal che l’idea, niente meno che rivoluzionaria, di creare un tunnel sotto il fiume omonimo, destinato a raggiungere l’inaugurazione nel 1991. Alla presenza della stessa regina Elisabetta che, a quanto ricordano orgogliosamente gli abitanti, non mancò di complimentarsi con i rappresentanti delle compagnie coinvolte, per il notevole traguardo ingegneristico che esso giunse a rappresentare.
Un’altra prova tangibile di quello spirito d’ingegno e ricerca costante del Progresso, che tale parte ebbe a costituire dell’identità britannica inerente. Molto prima che l’avidità dell’individuo, ed il bisogno dei politici di mettersi in mostra, cambiasse come anche nel resto d’Europa (e ben oltre i suoi confini) le linee operative alla base delle grandi opere pubbliche di nostri strani giorni.