Dimore di un villaggio diafano sospeso tra realtà e immaginazione

Fu in un certo senso l’immagine tridimensionale computerizzata, il primo esito di quel processo futuribile, oggi più spaventoso di qualsiasi mostro di Halloween, che prende oggi il nome di algoritmo generativo. La cosiddetta “intelligenza artificiale” che deriva dall’inserimento del lavoro precedentemente portato a termine dentro il grande frullatore. Che con precisione millimetrica, ri-produce non soltanto la mera illusione, bensì anche l’aroma e lo spirito dell’umanità. Mettete ciò a confronto, dunque, con la perfezione della matematica: una serie di vertici e di punti, a partire da una formula, che sullo schermo avranno la mansione di apparire come aeroplani, edifici, addirittura personaggi non del tutto privi di una certa verve espressiva, protagonisti degli antichi videogiochi. Quello che in un simile settore, viene definito come il wireframe, primo tipo di elaborazione 3D raggiungibile mediante l’uso di tecnologie ormai desuete. Eppure, non sarebbe ingenuo, persino superficiale voler affermare che l’imperfezione degli strumenti limiti la portata del processo creativo? Alcune delle opere più importanti nella storia sono pitture parietali all’interno di una caverna. Statuette in terracotta in cui si vedono le tracce delle dita primitive… E così via. Non si può confondere il MEZZO con l’OBIETTIVO. Almeno che un simile sincretismo non rientri a pieno titolo nel metodo espressivo dell’autore di turno.
David Moreno è l’artista di Barcellona, attivo nel mondo dell’arte tangibile e su Internet almeno per l’interezza dell’ultima decade, che afferma di volersi muovere in quella terra di nessuno che alberga nell’intercapedine tra due mondi. Il disegno e la scultura, o scegliendo di percorrere fino all’estremo l’inerente patto finzionale, l’architettura stessa. Osservare le sue opere, d’altronde, è come perdersi all’interno di un labirinto. Laddove proporzioni e posizioni vengono improvvisamente sovrapposte nello spazio della mente soggettiva del fruitore, che un passo alla volta s’inerpica all’interno di siffatti ambienti. Visioni… Ultramondane. Il punto d’arrivo, piuttosto che una tappa di quel viaggio, all’interno di minuscole città oltre cui traspaiono pareti bianche o elementi mobili di un transitorio fondale. Poiché la misura di quell’arte individuale (difficile, stavolta, dividere il metodo dalla visione) è data dall’impiego di fili metallici e corde di pianoforte, assieme a legno, plastica ed altri elementi da incollare o saldare assieme. Come “I legami che ci uniscono” in base alla semplice didascalia che sembra sempre accompagnarsi a simili creazioni, nel vasto e sacro bosco della comunicazione digitalizzata. Ma non siamo forze innanzi, da molteplici punti di vista, alla visione di un’ineccepibile ritorno alla visione antica del concetto stesso di wireframe?

Nato nel 1978 e con numerose mostre individuali e collettive nel proprio curriculum d’artista, principalmente all’interno della penisola Iberica dove si è formato ed abita, oggi David Moreno vede le sue opere inserite in repertori permanenti rinomati come la Fondazione Banc Sabadel e la Olor Visual Collection ed è possibile anche individuare qualche prezzo, capace di aggirarsi sulle svariate migliaia di euro.
Le poche informazioni biografiche reperibili online parlano, ad ogni modo, di un inizio di carriera focalizzato nel disegno tecnico ed illustrativo con inchiostro veicolato mediante penna dalla punta fine, il che non sorprende eccessivamente visto il metodo espressivo delle tecniche di cui si è fatto il principale ambasciatore all’interno del mondo dell’arte. I primi lavori pubblicati online, almeno a giudicare da un profilo Instagram particolarmente ricco di materiale e spunti interessanti, fanno la loro comparsa nel 2016, quando ancora spaziavano dall’architettonico al figurativo, ad elementi di arredo e fino all’occasionale figura antropomorfa in posizione danzante. Già allora, tuttavia, si intravedeva l’interesse per l’ambiguità nella creazione di forme tridimensionali che, come in una sorta d’illusione anamorfica all’inverso, potessero sembrare dei meri disegni quando osservate dalla corretta angolazione. Fino alla presentazione al pubblico, non più tardi della fine di quell’anno, del particolare modulo che sarebbe diventato ricorrente: un raggruppamento di case stereotipate, con le pareti filiformi che paiono sfumare prospetticamente, accentuando l’impressione di trovarsi innanzi ad un’immagine onirica, o l’equivalenza pratica di un disegno incompleto. L’ispirazione, dichiaratamente e come desumibile dai titoli, è la favela brasiliana, in cui il confine tra gli spazi diviene discontinuo, benché non manchino ispirazioni storiche agli stili Gotico e Romanico, nonché singoli esempi anatomici e bizzarri, con il micro-assembramento di edifici che accenna casualmente a forme anatomiche, volti o viene connotata dal possesso di tentacoli, zampe affini a quelle della mostruosa capanna stregonesca di Baba Yaga. L’uso del colore, quando presente, è univoco e dotato di grande impatto, con sfumature sottili che accentuano l’effetto della luce, massimizzando l’impressione della profondità. Significativa, nel dicembre del 2017, l’installazione realizzata per il museo Sharjah degli Emirati Arabi dal titolo di Connecting Doors, una trasposizione a dimensioni monumentali del suo processo, che per una volta permette al visitatore di entrare fisicamente nello spazio immaginifico di quel reticolo di fili preminenti. Con una proposta per lo più iterativa, mirata al perfezionamento delle metodologie di sua invenzione, l’autore sembrerebbe aver intrapreso negli ultimi anni un graduale processo di miniaturizzazione del soggetto ricorrente, fino alla creazione di veri e propri modellini o persino pezzi di gioielleria, recanti l’effige delle case irraggiungibili, che come in un sogno ricorrente tentano di riportare l’immaginazione in quel regno distante.

Persino adesso, con gli strumenti e spazi virtualmente illimitati di cui disponiamo, non è particolarmente facile trovare un artista che comunica tracciando una linea ininterrotta tra lo spazio metaforico e quello apparente. E che dunque ivi si colloca massimizzando la propria stabilità, senza percorrere l’accenno verso nessun tipo di possibile distrazione. Così dimostrando di aver raggiunto, a suo modo, l’apice di quella che può essere una particolare sfaccettatura, ovvero l’effettiva nicchia o abside d’illimitate catacombe nel vasto mondo dell’immaginifico tradotto in gesti o parole.
Un’utile dimostrazione. Poiché ciò che le nostre mani possono riuscire a compiere non è del tutto raggiungibile mediante l’uso di strumenti inumani: un filo diretto tra le impercorribili dimensioni. Questo ponte labile che unisce passato, presente e futuro. Ove risiedono gli spiriti, di tutti coloro che in un momento o l’altro hanno cercato di evadere dagli stringenti confini della materia. E chi siamo, noialtri, per postulare che l’Infinito li avrebbe rispediti indietro?

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