Quante importanti scoperte archeologiche, quale moltitudine di reperti, nella serie di latenti circostanze che corroborano e implementano il senso comune, ad oggi restano appannaggio elitario per specifici campi di specializzazione? Non tutto può essere d’altronde posto dietro una vetrina, sotto luci barbaglianti, negli spazi ad alta visibilità di un celebrato ambiente museale. Ma neppure può essere impiegata tale linea come punto distintivo, circostanza della classificazione tra un lato e l’altro di questo ideale limite alle cognizioni delle moltitudini che venerano, con approccio per lo più spontaneo, la conoscenza. Ecco dunque una questione che apparentemente merita di porsi più di un transitorio quesito. Poiché non c’è una singola ragione, bensì una sfortunata e scollegata concatenazione di eventi, per cui il temenos (santuario) di Agia Irini, ritrovato presso la parte settentrionale dell’isola di Cipro, non dovrebbe risultare famoso al pari di Stonehenge, l’Acropoli di Atene o il Foro Traiano di Roma. Per non parlare della tomba cinese del primo Imperatore Qin Shi Huang Di, che per inciso visse e morì nel terzo secolo, almeno duecento anni dopo il presumibile abbandono di questo singolare, importante luogo di culto. Collegato a una così importante componente del patrimonio dell’Estremo Oriente, non da effettivi ed improbabili interscambi culturali, bensì quella che possiamo definire unicamente come un’improbabile coincidenza: l’inclinazione delle genti locali, come parte di un complesso sistema ritualistico, a seppellire un’irragionevole quantità di fedeli riproduzione di se stessi. Oltre 2.000 figurine di terracotta, per essere precisi, ritrovate mezzo metro sotto il suolo sabbioso all’inizio dello scorso secolo, benché ancora si ritenga che esse potrebbero costituire soltanto una parte del gran totale in attesa di venire portato alla luce. Di foggia e dimensioni estremamente varie, dall’impostazione prettamente ritrattistica a dimensioni quasi reali all’astrazione pura e semplice, di suonatori, guerrieri, sacerdoti e pastori, accompagnati da una grande quantità di riproduzioni bovine. Il che fece sospettare agli originali scopritori, i membri della storica Spedizione Archeologica Svedese, che potesse trattarsi di un tempio dedicato a Baal, possibilmente risalente all’epoca d’insediamento fenicio su questi lidi. Benché tale interpretazione fosse destinata successivamente ad essere messa in dubbio, soprattutto alla scoperta d’ulteriori strati di reperti tra il 1960 e il 1980, ad opera del prof. John L. Caskey dell’Università di Cincinnati, che parrebbero estendere l’utilizzo di questo luogo extra-urbano ben oltre quello che i suoi insigni predecessori avevano denominato come il Secondo Periodo Arcaico isolano (600-480 a.C.) ma fino all’Era Geometrica (1100-750 a.C.) e persino oltre tale epoca eccezionalmente remota. Gettando significativi dubbi, sulla storia stessa di quest’isola dalla collocazione geografica strategicamente rilevante, oggetto di tali e tanti conflitti attraverso il succedersi dei secoli che dovevano ancora venire.
La storia della scoperta del temenos di Agia Irini, luogo che prende il nome da una santa di epoca bizantina, è come dicevamo il palesarsi di una serie di fortuite circostanze. A partire dall’incontro avvenuto in Grecia ad Assini, nel marzo del 1922 tra l’archeologo Axel Persson ed il console di Svezia a Cipro, Louki Pieridis. Allorché il primo avrebbe aiutato il secondo con un prestito per ottenere il visto verso l’Ungheria, ricevendo in cambio la promessa di assistenza nell’ottenimento dei diritti di scavo per una spedizione archeologica presso quello che all’epoca costituiva un territorio del grande Impero Inglese. Ci vollero ulteriori cinque anni perché Persson, ricevendo un finanziamento diretto del principe di Svezia Gustavo Adolfo, anch’egli appassionato di archeologia, desse il mandato al suo migliore studente, l’allora poco più che venticinquenne Einar Gjerstad, per organizzare l’impresa. Assieme a lui partirono i colleghi Sjoqvist, Westholm e l’architetto Lindros, che una volta giunti nell’isola mediterranea decisero di dividersi i compiti, approcciando in parallelo diversi siti ritenuti importanti sulla base del loro limitato repertorio di fonti. Fu proprio Sjöqvist a ricevere, nel novembre del 1929, la visita di un sacerdote ortodosso locale, Padre Prokopios, che lo informò di aver trovato un saccheggiatore nei terreni agricoli del suo villaggio, intento a disseppellire un’interessante rappresentazione umana di terracotta. Sulla base di tale reperto ed ulteriori frammenti che gli furono presentati, l’archeologo si recò dunque ad Agia Irini assieme a Gjerstad, trovandosi dinnanzi al raro esempio di un vasto repertorio d’opere, rimaste indisturbate per svariati millenni. I due disseppellirono, scavarono ed ipotizzarono, fino all’approdo ancora oggi ritenuto probabile di uno spazio geometrico pressoché triangolare, entro il quale venivano effettuati una serie di antichi e inconoscibili rituali. La presenza di una statua sacerdotale con un lungo abito, che probabilmente stringeva in mano un coltello sacrificale probabilmente in metallo (esattamente come i soldati cinesi del primo Imperatore) ha permesso d’ipotizzare la natura sanguinosa di tali occorrenze, mentre la disposizione di una serie di figure in assetto battagliero attorno ad un globo fu identificata come una possibile versione locale nel gioco eponimo praticato, dai giovani soggetti all’agoghé, l’educazione spartana in base al codice di regole istituite nel IX-XVIII secolo dal nomothetis (legislatore) Licurgo. Un’usanza nell’epoca successiva dei primi strati ciprioti già accantonata e che proprio qui avrebbe potuto trovare il modo di sopravvivere, anche grazie alla posizione prestigiosa delle genti locali nel contesto commerciale e culturale del VI-V secolo a.C. Nei quattro anni di lavoro successivo, portando a termine ulteriori operazioni di scavo e catalogazione totalmente prive di precedenti a Lapithos, Enkomi, Amathus ed Idalion, gli archeologi svedesi strinsero un problematico patto con le autorità britanniche, del tutto comune a quei tempi caratterizzati dalla tipica mentalità coloniale: una buona parte dei reperti ritrovati sarebbero stati portati via dai siti per essere custoditi a Stoccolma, una sorta di furto legalizzato che si sarebbe tuttavia rivelato provvidenziale, successivamente all’invasione militare dell’isola nel 1959, da parte di forze turche che volevano nominalmente proteggere i propri connazionali dalle conseguenze di un colpo di stato della maggioranze etnica greca. Giacché il sito archeologico di Agia Irini, assieme alla vicina chiesa storica dedicata alla santa ortodossa, si trova oggi recintato ed inaccessibile nella zona d’esclusione militarizzata, risultando visitabile soltanto dietro accordi specifici e con il beneplacito del governo della Repubblica Turca di Cipro del Nord.
E le statue? Furono messe al sicuro, come spesso capita per beni archeologici di tale rilevanza culturale. Con una metà lasciata per gli accordi presi entro le sicure sale del Museo Archeologico di Nicosia, la capitale divisa dalla celebre linea verde (lato greco) e l’altra “metà”, che per inciso sembrerebbe risultare più corposa nelle documentazioni videografiche reperibili online, trasportata presso il Medelhavsmuseet o Museo dell’Arte Mediterranea di Stoccolma. Una concessione forse parzialmente giustificabile, dalla cultura del primo terzo del Novecento e la rilevanza avuta dai ricercatori svedesi nella scoperta di questo notevole patrimonio culturale dell’umanità, ma che nonostante tutto non sembrerebbe essere stata sufficiente a far conoscere l’eccezionale ritrovamento cipriota nel mondo. Che ad oggi manca di essere il soggetto di alcun tipo di programma scolastico, nonché documentario, approfondimento divulgativo o libro d’arte generalista sulla storia dei nostri remoti predecessori. Nonostante l’assoluta e pressoché totale unicità di queste opere di terracotta, nella progressione artistica statuaria della storia d’Occidente. E non solo.