L’ambìta chiave dell’inviolabile bastione sulle candide scogliere d’Inghilterra

Un luogo può essere fortificato per generazioni, senza mai acquisire una significativa fama tra le pagine della storia della sua gente. Finché qualcuno, dalle terre d’oltre Manica, non giunge con l’intento dichiarato di conquistarlo. Dimostrando al mondo quanto fosse stato sopravvalutato. Questa è la vicenda, almeno per come viene approcciata nell’importante cronistoria del prete William di Poitiers, al seguito di Guglielmo, il condottiero e duca di Normandia. Quando il suo provato esercito, dopo aver sconfitto il Re Aroldo d’Inghilterra ad Hastings nel 1066, marciò fino alle sopravvalutate mura della città di Dover, i cui abitanti a quanto egli riporta già sapevano di non poter resistere alla sua furia. E in breve tempo capitolarono, non venendo a seguito di questo risparmiati dal sacco e conseguente incendio del loro insediamento collinare. L’unica reale parte in grado di resistere all’avidità dei Normanni, in quel frangente, fu dunque il punto più elevato ove sorgeva una singolare chiesa dedicata alla Madonna, il cui campanile era rappresentato da un’antico edificio dalla forma di un cono; niente meno, in effetti, che il pharos costruito dai Romani al tempo di Caligola, come controparte di un altro identico a Boulogne-sur-Mer. Questo preciso luogo in effetti, e le scogliere antistanti, erano già state ritenute da lungo tempo il sentiero migliore disponibile per approdare dal mare “stretto” fino alle fertili terre del Kent. E da lì marciare, auspicabilmente senza contrattempi, verso le città chiave di Canterbury e Londra. Assoluto potere clericale e temporale, dunque, cui Guglielmo stesso optò di affiancare un predominio strategico, decidendo di far costruire sopra il colle di Dover un forte di legno, così come assai probabilmente avevano già fatto un tempo le genti di Roma. Saltando innanzi un paio di generazioni, fino all’epoca di Enrico II Plantageneto, salito al potere nel 1133, troviamo un’Inghilterra finalmente unita ed influente, tanto da tenere in pugno i territori del cosiddetto Impero Angioino, capace di estendersi dall’estuario del Solway fino al Mar Mediterraneo e dai monti della Somme ai Pirenei. Ciò anche grazie, assieme alla forza delle proprie pretese dinastiche, alla potente flotta dei Cinque Ports, le città costiere sulla sponda inglese della Manica, di cui la stessa Dover era diventata da tempo la più popolosa ed influente. Il che aveva dato ragione, nei lunghi anni di dominio da parte del sovrano figlio di Goffredo il Bello, di rinforzare e costruire alte mura attorno alla chiesa, fino all’opera senza alcun tipo di precedenti portata innanzi con l’aiuto di un rinomato ingegnere di nome Maurice. Che tra il 1179 e il 1188, negli ultimi tre anni del suo regno, fu strumentale nell’investimento oltre 6.500 sterline dalle casse dell’Erario, ovvero semplicemente la maggior somma mai spesa per un singolo castello nell’intera, lunga storia della Gran Bretagna. Il che avrebbe portato, senza alcun dubbio, all’erezione di una delle sue fortificazioni maggiormente estese, ed impressionanti…

Per comprendere il ruolo storico del castello di Dover occorre a questo punto sottolineare come esso non fu mai una residenza concepita per ospitare la famiglia reale. Non aveva infatti un bosco per la caccia, né residenze per i servi che non fossero gli armigeri della sua guarnigione, e sebbene in epoca angiovina venne connotato dalla presenza di un maestoso torrione centrale, non privo di paramenti e arredi lussuosi al proprio interno, esso mantenne sempre una prontezza al combattimento che sarebbe stata ignota alle fortificazioni paragonabili di Windsor, presso l’omonimo attraversamento non meno strategico del Tamigi. Nel 1216 dunque, neppure 30 anni dopo il completamento di quel solido complesso, l’investimento del Plantageneto ebbe modalità e ragione di ripagarsi. Quando all’apice della crisi del potere monarchico subìta da Re Giovanni, in seguito destinato a passare alle cronache come il Senzaterra, Filippo II il Leone di Francia aveva stretto un pericoloso accordo coi baroni che avevano redatto la Magna Carta. E dopo essere sbarcato in Kent conquistando facilmente i castelli di Canterbury e Rochester, vide la propria avanzata totalmente posta in stato di arresto innanzi alla fortezza angiovina, le cui mura erano troppo alte, spesse e resistenti per abbatterle mediante metodi convenzionali. Affrettandosi a dar ordine che fosse scavato un tunnel per indebolirle, egli diede inizio ad un assedio di tre mesi, che tuttavia dovette in seguito fermare per marciare in forza sulla città di Londra. Ma fu probabilmente proprio tale contrattempo ad estendere i tempi della guerra, fino al 18 ottobre del 1216 quando lo stesso Giovanni, per uno scherzo della Provvidenza, venne colpito da dissenteria e morì improvvisamente. Così che i baroni inglesi, spostato inizialmente il proprio supporto ad Enrico III, diedero inizio ad una nuova fase del conflitto che nel 1264 avrebbe dato luogo al parlamento realista di Simon de Montfort. Ma a nessuno avrebbe più venuto in mente, allora né in seguito, di conquistare il castello sulle candide scogliere di Dover.
Con un’importanza per lo più figurativa, dovuta allo sviluppo della polvere da sparo e le nuove tecniche d’assedio del tardo Medioevo, il castello venne finalmente aggiornato in epoca Tudor durante il regno di Enrico VIII, che lo visitò personalmente dando ordine di costruirvi un nuovo fossato e terrapieni capaci di ospitare l’artiglieria, assorbendo al tempo stesso i colpi dei cannoni nemici. Durante la Guerra Civile del 1642, tra gli alleati di Carlo I Stuart e i supporters del potere parlamentare, il simbolico luogo fortificato passò quindi sotto il controllo di questi ultimi, per volere dei propri ufficiali e senza che venisse sparato un singolo colpo.

Per trovare nuovamente la rocca di Dover al centro di un’operazione bellica sarà dunque necessario attendere fino alla seconda guerra mondiale, quando nel 1939 i suoi sotterranei si trovarono ad ospitare il comando decentrato dell’Ammiraglio Bertram Ramsay, destinato a dimostrarsi fondamentale per l’esecuzione dell’evacuazione dei soldati britannici di Dunkirk, nell’operazione che avrebbe ricevuto il nome in codice di Dynamo. Con una statua del famoso militare dei tempi moderni, ancora oggi, posta a commemorare l’evento fuori da una delle numerose porte dell’alto torrione centrale. E strani aneddoti, costruiti in quei concitati frangenti, in relazione ad un misterioso suonatore di tamburo senza testa, che avrebbe corso nella notte sui bastioni al fine di avvisare gli uomini all’interno in occasione dei frequenti bombardamenti della Luftwaffe.
Quale antica dimora britannica, d’altronde, potrebbe dirsi mai completa, senza la narrativa collegata al minimo sindacale di almeno un (1) fantasma? E che altro modo può avere meriti maggiori, dell’esemplificazione di simili circostanze, per palesare l’importanza ponderosa delle imprese dei nostri predecessori? Che talvolta scomparivano con il trascorrere delle generazioni. E qualche altra, lasciavano imponenti opere di pietra, destinate a sopravvivere sia a loro, che a noi! Nella speranza, tanto spesso mal riposta, che l’ultima deposizione delle armi avesse finalmente ricevuto una valida ragione per compiersi… E le fortificazioni fossero oramai soltanto dei luoghi turistici, usati per parlare al mondo di quei turbolenti eventi passati.

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