“C’è sempre di peggio a questo mondo. Almeno non è fatto di vetro, giusto?” Con un persistente senso di capogiro, volgi lo sguardo innanzi all’esperto viaggiatore che, per qualche ragione, ha scelto di farti guida in questo attraversamento infernale. L’amore per l’adrenalina dimostrato nello strano Luna Park cinese delle montagne dello Hubei compare brevemente nei tuoi ricordi, assieme alle immagini dei celebri arrampicatori dell’Est Europa in bilico presso il perimetro dei grattacieli. Certo, non può essere così terribile alla fine. Non stai partecipando allo Squid Game. Alzi gli occhi al cielo, quindi guardi nuovamente in direzione dei tuoi piedi. Grosso errore: c’è uno spazio di 30 centimetri circa tra la punta delle scarpe e il vuoto assoluto. Quindi almeno il doppio in termini di spazio negativo, prima che sia possibile poggiarsi nuovamente senza precipitare nel vuoto assoluto. “Guarda, se anche dovessi cadere, probabilmente non finiresti per farti così male. Di sicuro la corrente di porterebbe un po’ più a valle! Ma la gente del villaggio farebbe di tutto per tirarti a riva, te lo garantisco.” Grazie mille, oh misterioso connazionale che sembra avere il ghiaccio nelle vene e al tempo stesso, sulla base di notevoli esperienze pregresse, il Pakistan nel cuore. Con un rapido sospiro (che altro potresti fare?) Metti il piede destro oltre il balzo e sulla traversina successiva. Dovrai farlo soltanto altre 200 volte per poter dire di aver portato a termine la sfida. La superficie oscilla minacciosamente nel vento. Ma questa non è neppure la parte peggiore. Poiché è innegabile che dopo, in un modo o nell’altro, dovrai necessariamente tornare INDIETRO.
Antichissima è la storia degli insediamenti umani della valle di Gojal, una regione pedemontana che di trova situata all’ombra della seconda catena montuosa più elevata al mondo. E di sicuro, per le specifiche caratteristiche topografiche nonché la natura accidentata dei pochi sentieri disponibili, la meno abitata tra gli interi recessi dell’Asia meridionale. Eppure queste terre, nel corso dei secoli o persino millenni, sembrerebbero aver attratto le persone stolide, gli ostinati, coloro che volevano costruirsi un futuro possibile lontano dall’influenza dei grandi gruppi politici e religiosi. Costruttori di rudimentali case edificate con semplice pietra estratta localmente, capaci di trarre nutrimento dalla pastorizia e l’agricoltura praticate in condizioni di mera sussistenza. In luoghi come Passu, un villaggio attualmente abitato dai membri di 7 famiglie, le uniche rimaste dai fasti delle 300 anime qui situate fino al termine del XVIII secolo. Epoca in cui, come già successo in precedenza, il vicino fiume di Hunza sarebbe straripato a causa di piogge eccessivamente intense, portando la devastazione tra le dimore, i campi e frutteti di coloro che tanto avevano fatto e fino a tal punto avevano tribolato, al fine di facilitarsi per quanto possibile l’esistenza. Eppure, non tutti emigrarono, non tutti persero la speranza. Questo perché restava pur sempre possibile, armandosi di forte volontà ed il giusto senso di abnegazione, procurarsi le risorse necessarie commerciando coi borghi vicini. Ciò facendo affidamento su una rete di sentieri, ed attraversamenti fluviali, che neppure una catastrofe di grande portata avrebbe potuto spazzare via a discapito delle generazioni future. E del resto quale corrente, tra tutti le casistiche idrologiche, sarebbe occorsa per riuscire a scardinare un ponte che era già per il 50% privo di alcuna tangibile sostanza?
I sentieri sospesi dalla rilevanza turistica situati in questo inconfondibile territorio della provincia pakistana di Gilgit-Baltistan sono, in effetti, una coppia. Tanto che nelle escursioni consigliate si prevede in genere l’attraversamento a partire dal vicino luogo di parcheggio sull’autostrada del Karakorum in un senso sul ponte di Passu di 243 metri, ed al ritorno transitando lungo l’estendersi di quello di Hussaini della lunghezza lievemente inferiore. Che prende il nome da un altro piccolo centro abitato, non più grande di qualche decina di persone, in buona parte appartenenti all’etnia pastorale dei Wakhi, antica etnia parlante della lingua Xikwor proveniente dalla parte orientale della confinante Iran. Entrambe strutture architettoniche, se così possiamo chiamarle, che paiono trarre il proprio senso principale di esclusività in quello che manca, piuttosto che le parti tangibili della propria semplice struttura sospesa. Già, strano a dirsi: un qualche evento parzialmente distruttivo pregresso, o forse la mera preferenza di costruttori alquanto eclettici nel modo di porsi, parrebbero aver privato entrambi gli attraversamenti di circa la metà del materiale richiesto. Creando l’anomalia di un impalcato in cui la lunghezza del passo necessita di essere accuratamente calibrata. Pena l’ipotetica caduta, nelle acque vorticose o in certe stagioni la secca sabbia del letto fluviale sottostante. Con il ponte di Hussaini definito con surreale orgoglio, in buona parte delle guide turistiche reperibili sulla regione, come il “più pericoloso del Pakistan”, probabilmente in funzione del suo effettivo grado di oscillazione e lo spazio vuoto che si trova sotto la sua struttura in legno, corda e catene secondo l’usanza tradizionale di queste parti. Laddove la controparte di Passu, trasformato per l’ultima volta in un cumulo di rovine dall’ennesima piena del fiume all’inizio degli anni 2010, è andato incontro alla ricostruzione accanto in materiali più moderni, concepiti per resistere almeno in linea di principio ad ogni tipo di perturbazione meteorologica di proporzioni ragionevoli. Ma, cosa in grado di lasciare oggettivamente basiti, avendo cura di mantenere il suo aspetto caratteristico residuale ed incompleto, nonché la stortura implicita delle traversine cadute, così da permettere alle nuove generazioni di visitatori di sperimentare ancora la sensazione duratura di trovarsi a pochi attimi dal disastro. Un sentimento ulteriormente accresciuto dai resti ben visibili del vecchio ponte, stesi da un lato all’altro degli argini come l’equivalenza sovradimensionata di un cavo per far asciugare la biancheria.
Il che lascia soltanto una valida consolazione, da evocare nella mente di colui o coloro che, volenti o nolenti, hanno percorso fino in fondo la bizzarra concatenazione d’eventi necessaria a sperimentare una tale esperienza. Per fortuna, a queste altitudini non vivono gli alligatori. O branchi barbaglianti di pastinache, perennemente affamate.
Famosi per la loro vicinanza alla vista panoramica sul Batura Muztagh, una delle zone della catena montuosa del Karakorum con i picchi più geometricamente appaganti e gradevoli da ammirare posizionandosi su ambo i lati dell’Hunza, l’isolata coppia di villaggi continua perciò a proiettare verso l’indomani l’eclettico sistema del proprio ancestrale stile di vita. Coadiuvato dall’emersione, in epoca contemporanea, di un certo numero di alloggi e bed & breakfast sul modello occidentale, con buona pace degli antichi metodi dell’autosufficienza e del baratto con le comunità vicine. Ancorché risulti difficile, al giorno d’oggi, immaginare un luogo più autentico e vicino agli antichi crismi del vivere in zone pedemontane. Di sicuro non presso quelle parti dell’Himalaya, nel vicino Tibet, che circondano il campo base del monte Everest. Dove schiere di turisti milionari hanno da tempo preso il posto degli occasionali avventurieri armati di chiodi, piccozza ed il proprio frasario limitato per comunicare con gli Sherpa locali. Giacché una volta giunta la possibilità di esprimersi nella lingua dell’inglese globalizzato, non manca molto all’arrivo dell’inevitabile McDonalds. Ma non sarà altrettanto facile cambiare le percezioni locali, in materia di rischio accettabile e ragionevoli normative di sicurezza.