Il complicato morso del remipede nel buio cosmico della caverna

Nel paese dei non-vedenti l’uomo con un occhio solo è Re ma in particolari circostanze, egli non avrà bisogno neanche di tal singolo strumento per l’acquisizione della conoscenza. Potendo disporre di un naso abbastanza funzionale ed ovviamente, la personale dotazione di una quantità appropriata di potente veleno. L’arma iconica del predatore, nella stragrande maggioranza degli artropodi ma non il rilevante phylum, trovandoci di fronte ad un sovrano che costituisce l’essenziale, inappellabile rappresentante dei crostacei, come granchi, aragoste e quegli stessi gamberi costituenti l’essenziale parte della sua della sua dieta. Ma il remipede non è mai stato preoccupato di essere paragonabile ai suoi simili, in primo luogo perché ha una forte tendenza all’individualismo esistenziale, e d’altra parte in quanto si presenta come un verme di caverna non più lungo di 25-30 millimetri. Il che non sembrerebbe in alcun modo averlo reso svantaggiato all’antico evento primordiale di distribuzione delle zampe, se è vero che tende a possederne almeno una settantina al raggiungimento dell’età adulta, quando i segmenti che compiono il suo corpo possono venire contati a dozzine. Ecco ciò di cui stiamo parlando, essenzialmente: l’estetica e superficiale corrispondenza di un millepiedi, ma trasferita come per magia nelle profondità delle caverne carsiche vicine al mare, dei sistemi anchialini messicani. Questo il centro dell’areale della specie Xibalbanus tulumensis, fatta oggetto di un importante studio pubblicato a fine luglio da studiosi dell’Università di Colonia, sulla rivista scientifica BMC Biology con l’argomento delle “Varianti della xibalbina capaci di inibire i canali neurologici PKA-II 2d Erk1/2”. Connessioni nervose di primaria importanza, in altri termini, nell’organismo umano come qualsiasi altro, il che tende a dare una collocazione valida a queste creature nel teatro della farmacologia contemporanea. Potendo svolgere funzione ideale di principi attivi negli antidolorifici o cure possibili di gravi condizioni del cervello umano. Tutte questioni al mero stato di correnti ipotesi, senz’altro, eppur capaci di portare nuovamente sotto i riflettori queste insolite creature sia dal punto di vista tassonomico che il proprio particolare stile di vita, conforme ai crismi della cosiddetta stygofauna, o biosfera di cui fanno parte gli esseri acquatici nati e vissuti nelle remote profondità della Terra. Capaci di muoversi con sinuosa pervicacia ed una velocità non trascurabile, proprio grazie all’agile configurazione delle loro zampe corte e tozze, dalla funzione paragonabile a quella di altrettante pagaie possedute da un ipotetico sottomarino ad energia muscolare. Nient’altro che il secondo punto cardine, di una strategia che mette la sopravvivenza sopra un piedistallo, anche a costo di dover catturare laboriosamente prede rare ed altrettanto preziose, iniziando a digerirle già dal primo morso, infuso del potere di paralizzare e al tempo stesso dissolvere i tessuti viventi. Come fatto dalle mosche o dai ragni…

Lungamente sconosciuti alla comunità scientifica, per via del proprio ambiente remoto d’esistenza e la mancanza di strumenti adatti a catturarne e preservarne gli esemplari, i remipedi fecero il proprio ingresso nello schema tassonomico dell’esistenza non prima del 1981, grazie ad osservazioni registrate dalla naturalista Jill Yager durante un’escursione speleologica nelle caverne di Lucayan, presso l’isola di Grand Bahama. Occasione in cui la specie osservata dello Speleonectes lucayensis venne immediatamente riconosciuta come qualcosa di completamente sconosciuto al mondo accademico, meritando in conseguenza di ciò l’attribuzione della nuova tipologia in lingua latina dei Remipedia, totalmente distinta dagli Hexapoda di cui fanno parte la maggior parte degli insetti di superficie. Permettendo in seguito d’individuare un polo della biodiversità centrato nell’Atlantico, sebbene almeno 17 delle 30 specie conosciute abbiano un habitat disseminato in acque lontane, incluse quelle del continente australiano. Molto poco si è saputo d’altronde della loro ecologia e modalità di procacciare il cibo, almeno fino all’approfondimento del 2013 ad opera di Bjorn von Reumont, curatore del Museo di Storia Naturale di Londra. Il primo a far notare formalmente come la presenza della forte ed appuntita prima coppia di zampe mandibolari di questi esseri avesse la funzione in effetti di veri propri canini mordaci, simili a quelli dei serpenti, al termine di dotti veleniferi connessi a ghiandole nascoste sotto lo scudo cefalico dell’animale. Iniziando ad elaborare, già in tale precipua circostanza, la possibilità che le strategie di caccia di queste creature potessero includere un morso mirato a rendere inermi le prede, come quello di vipere e crotali, così da procedere a quel punto a consumare il gambero colpito con la massima calma ed il minimo dispendio d’energia, punto fermo imprescindibile degli esseri che vivono in ambienti tanto limitati nelle fonti di cibo a disposizione. Trovandoci perciò di fronte all’unico crostaceo, su 70.000, che usa il veleno nelle proprie strategie predatorie, c’è davvero tanto da sorprendersi se tale sostanza riveli caratteristiche, e una potenziale utilità, eccezionalmente distanti dai sui lontani parenti?
Così veicolata al culmine di battute di caccia mai effettivamente documentate dalla scienza, durante cui l’essere si sposta nuotando in posizione invertita rispetto all’asse gravitazionale, facendo uso del proprio sviluppato senso dell’olfatto per supplire alla totale mancanza di organi dedicati alla vista. Niente d’insolito, per colui o coloro che vivono dove la luce del sole non potrà mai fornire un funzionale tipo di riscontro, sebbene sia difficile non ammirare la notevole portata dell’adattamento di chi, attraverso le generazioni, ha fatto dell’oscurità il proprio imprescindibile stile di vita….

Ancora meno è noto, prevedibilmente, in merito alle strategie riproduttive o eventuali riti di corteggiamento messi in pratica da tali abitatori del profondo, sebbene esista un singolo studio del 1988 (anch’esso di Jill Yager) dedicato alla configurazione degli spermatofori della specie atlantica Speleonectess benjamini. Nel quale si giungerebbe alla conclusione, almeno per quanto desumibile dalla sinossi consultabile online, che almeno questa varietà presenti caratteristiche d’ermafroditismo simultaneo, con possibile fecondazione contemporanea dei due protagonisti dell’episodio nuziale. Una modalità potenzialmente conduttiva alla semplificazione dell’allevamento futuro, qualora dovessero effettivamente concretizzarsi le ipotetiche funzioni curative elencate nello studio di metà estate 2024. Una possibile finestra, verso nuove vette dell’integrazione tra la vita moderna e la natura. Che potrebbe migliorare, in via ipotetica, le prospettive di una parte significativa dei nostri simili affetti da malattie neuroinfiammatorie o degenerative.
Una via d’accesso alla sopravvivenza dunque, che apre al tempo stesso i sentieri trasversali della consapevolezza. In merito a quanto sia effettivamente importante conservare i tesori nascosti della natura. Finché a qualcuno d’illuminato non sovvenga, finalmente, di sfruttarne l’inusitato potenziale non sempre o necessariamente palese.

Vedi: Diversely evolved xibalbin variants from remipede venom inhibit potassium channels and activate PKA-II and Erk1/2 signaling (Ernesto Lopes Pinheiro-Junior, Ehsan Alirahimi, et al.)

Lascia un commento