Lo strano fascino della falesia sulla cuspide del grande fiordo norreno

Il paradosso dell’adrenalina che rapidamente irriga la coscienza dei momenti è il modo in cui il trascorrere del tempo pare dilatarsi, rallentare fin quasi a fermarsi. Eppure ogni preoccupazione viene allontanata, grazie all’imposizione formidabile del “qui” ed “adesso”, sovrapposto alle propagazioni divaganti della nostra percezione imperfetta. La gente, intesa come collettività indivisa correlata alle pesanti problematiche del mondo corrente, può essere perciò disposta ad ogni cosa pur di mettere il proprio organismo in condizione di recepirla. Persino vivere, del tutto temporaneamente, l’attimo ipotetico che incombe sul momento finale, quella sensazione di poter morire per un minimo di transitorio straniamento. Sul termine del tempo e dello spazio, che convergono così: 984 metri sopra il Lysefjorden! Entro una piattaforma quadrangolare non più larga di un campo da tennis! Assieme ad altre 20 o 30 persone alla volta che si agitano, camminano, saltellano e si siedono il più possibile vicino al bordo! Altrimenti come mai potrebbero riuscire a catturare la foto per Instagram… in cui il mondo pare un modellino, con l’abnorme nave da crociera non più grande di un soprammobile lasciato lì dai giganti? Questa è ormai da tempo Hyvlatonnå, la roccia del “Dente della Pialla” o come hanno deciso di ribattezzarla in questo secolo, Preikestolen, ovvero semplicemente “il Pulpito” o “la Sedia del Predicatore”. Un ipotetica figura mitologica, che stagliandosi tra il mare e il cielo avrebbe il compito di far capire al proprio pubblico tutta l’incomparabile maestà dell’universo e ciò trova il modo di accentuarne il senso e quella logica profonda. Per cui oggi una formazione rocciosa di granito, creata dall’arrivo di preistorici ghiacciai alle crepe di un pendio incombente, potrebbe un giorno staccarsi e precipitare rovinosamente nell’abisso sottostante. Ma questo non succederà entro il dipanarsi della nostra vita o quella dei nostri nipoti, come ampiamente garantito con precisi modelli anche dai geologi del servizio statale, pienamente al corrente della vistosa crepa visibile ai margini della falesia. Così coinvolti presso questo sito per la sicurezza delle moltitudini, pronte a trasformarlo in improbabile attrazione da centinaia di migliaia di turisti ogni anno. Nonostante la collocazione relativamente remota e la necessità di camminare diverse ore al fine di raggiungerne il punto cruciale. Qualcosa che dovrebbe idealmente cambiare il nostro rapporto con la vita, con la morte e tutto quello che si trova nell’ideale spazio di tempo intercorso. Possibilmente lasciando l’opportunità di ritornare a valle tutti interi, raccontando l’ampia gamma di profondi sentimenti occorsi…

Situato nella contea norvegese meridionale di Rogaland, il fiordo di Lyse rappresenta l’insolita convergenza di situazioni geologiche valide a formare un certo tipo di formazioni (apparentemente?) precarie, capaci di stimolare l’immaginazione e aprire validi discorsi sugli effettivi processi orografici del nostro mondo. Vedi anche la Kjeragbolten, roccia incuneata in bilico all’interno di uno stretto crepaccio sull’omonima montagna. Un tipo di meraviglie forse non al centro dell’esperienza personale vissuta fino al 1896 da Thomas Peter Randulf, l’appassionato di escursioni e direttore di banca che si trovò a percorrere le acque dell’insenatura a bordo dell’imbarcazione a vapore Oscar II. Quando in un fatale attimo, indicò un punto delle svettanti pareti rocciose a vantaggio del suo amico e compagno di viaggi, Ole Hausken, pronunciando qualcosa sulla falsariga di: “Hai visto quella roccia, lassù? Ho la netta sensazione che sia possibile salirvi per guardare il panorama. Dovremmo andarci. Intendo oggi stesso, al massimo dopodomani.” E come è tipico in questa categoria di aneddoti, il resto è storia. Per come la leggenda del dinamico duo viene frequentemente ripetuta o descritta nelle guide acquistabili al campo base di quella che potrebbe essere una delle singole destinazioni turistiche più popolari dell’intera nazione dei 450.000 laghi d’acqua dolce. Conforme in tutto e per tutto alle caratteristiche più amate di questi luoghi: unicità, imponenza, (relativa) facilità di accesso. Tanto che il sentiero da percorrere per inerpicarsi sul bilico del fiordo, nonostante la lunghezza di 3,5 Km e l’elevazione di 330 metri risulta essere inclinato in modo non troppo drammatico per la grande maggioranza della sua estensione, oltre ad essere stato semplificato tramite l’installazione di tratti lastricati grazie all’aiuto di un gruppo di sherpa all’inizio degli anni 2010. Senza più troppi punti critici, fatta possibilmente eccezione per un’ultima parte stretta ed esposta ai venti prima di raggiungere la piattaforma piatta della roccia eponima creatrice di quel surreale richiamo. Il che è in parte all’origine di una certa quantità di prevedibili problemi, essendo il percorso della Preikestolen frequentemente parte dell’itinerario di gruppi o singoli non necessariamente pronti allo sforzo fisico richiesto, o dotati delle giuste scarpe, abbigliamento, preparazione mentale ad uno stato ragionevole di prudenza. E molti sono i racconti relativi a persone che lo affrontano dotate di scarpe da corsa prive del giusto tipo di suola, magari con al seguito cani riottosi o bambini non così entusiasti di seguire i propri genitori fin sopra i confini del mondo ed oltre. Per non parlare dei giovani “avventurieri”, forse troppo avvezzi al fascino di quella sostanza delle nostre ghiandole cerebrali, regolarmene inclini a mettere se stessi e gli altri in pericolo, avvicinandosi eccessivamente ai bordi privi di recinzioni, mettendosi in pose inerentemente instabili o persino restando appesi con la mera forza delle braccia sopra il mortale pendio mentre vengono ripresi dai propri amici (una scena reperibile su YouTube al momento in cui scrivo, e che altrimenti sarebbe ben difficile da ipotizzare sulla base del semplice senso comune).

Colpisce, a questo punto, la quantità eccezionalmente bassa di incidenti letali registrati presso un sito preminente e inerentemente insicuro come la roccia di Rogaland: soltanto due morti a partire dal 2020, almeno una delle quali attribuita ad un esplicito intento di suicidarsi. Ed un altro paio di tentativi non portati a termine in tal senso, volutamente pubblicizzati il meno possibile al fine di ridurre il più possibile l’intento di eventuali emuli maggiormente determinati a transitare verso l’Empireo innanzi a uno scenario che lo ricorda. Benché l’occorrenza di ricorrere ai soccorsi, per infortunati o altri partecipanti improvvisamente diventati incapaci di affrontare le 3,5/4 ore necessarie per portare a termine l’escursione, risulti essere tutt’altro che rara, nell’estendersi di una stagione turistica che va normalmente da aprile a settembre. Vista la brevità delle giornate invernali a queste latitudini, oltre alla quantità di neve e ghiaccio che tendono a ricoprire il lungo tragitto.
Il che rende un luogo come questo, se non proprio avvezzo al concetto di trappola per turisti, quanto meno regolarmente affollato nello spazio di tempo utile a sperimentarlo. Rendendolo un’occasione di dire “c’ero anch’io” piuttosto che un prolungato attimo d’introspezione individuale. Ma il valore di ogni tipo di esperienza vissuta nel corso delle proprie giornate momentaneamente libere dalle catene della quotidianità, si sa, è tipicamente soggettiva. E sono pochi, nell’universo dello scibile geografico a noi noto, luoghi ed occasioni realmente degne di affollarsi nella nostra memoria. Come angeli sulla punta di uno spillo, ingigantito molte volte grazie all’uso di speciali microscopi elettrici nel vasto laboratorio dello spaziotempo.

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