L’aragosta di acqua dolce, un’incredibile creatura tasmaniana

Nel famoso incipit di un romanzo dell’inizio degli anni 2000, l’autore scrisse: “Molto tempo, quando il mondo era ancora giovane, prima che i pesci del mare e tutte le creature terrestri fossero distrutte, un uomo di nome William Buelow Gould fu condannato all’imprigionamento nella più temuta colonia penale dell’Impero Britannico, e lì gli venne ordinato di dipingere un libro sui pesci.” Lo scrittore era Richard Flanagan e il protagonista della locuzione, nonché la storia a seguire, uno degli abitanti più celebri della Terra di Van Diemen, il primo insediamento permanente di grandezza significativa nel più remoto dei continenti. Che non si trovava, come tenderebbe a relegarlo lo stereotipo, nella terraferma australiana bensì presso l’isola meridionale soltanto oggi incorporata nel suo territorio nazionale, un luogo ancora largamente misterioso nel XIX secolo, sia dal punto di vista ecologico che del tipo di creature che abitavano le sue bagnate sponde. Questione molto significativa in quanto Gould, come il suo più celebre omonimo John, pittore degli uccelli londinese, vantava quella combinazione straordinariamente utile di spirito d’osservazione ed abilità nel disegno. Fu dunque a seguito del 1832, dopo aver continuato a sconfinare nell’illegalità che caratterizzò buona parte della sua esistenza, ad essergli imposto un periodo di servitù presso lo storico naturale William de Little. Durante cui osservò, annotò, dipinse. Innumerevoli creature della splendida Tasmania, eppure mai nessuna destinata a rimanere più famosa di questa: l’Astacopsis gouldi, così denominata soltanto a quasi un secolo da quei momenti, da ogni punto di vista logico un’anomalia priva di precedenti. Poiché da ogni aspetto rilevante tranne la forma lievemente più tozza ed il telson (coda natatoria) meno sviluppato, sembrava la tipica aragosta oceanica delle coste del Maine o del Golfo del Messico, magicamente trasferita non presso le spiagge, bensì i torbidi fiumi dell’entroterra locale. Trattandosi effettivamente di un “semplice” gambero, benché capace di raggiungere gli 80 centimetri di lunghezza ed i 6 Kg di peso. Tanto che già in precedenza, le popolazioni indigene ed i loro nuovi vicini europei erano soliti consumarne quantità eccezionalmente significative, visto il sapore ottimo e la facilità con cui si poteva tranquillamente raccoglierne un esemplare adulto, poco prima di procedere alla cottura a fuoco lento. Dopo tutto, a chi sarebbe mai importato, della vita priva di significato di un comune “ragno” dei mari…
Le genti agli albori dell’epoca moderna, se non altro, hanno una scusante: essi non sapevano in effetti, né avevano modo di rendersi conto, che il contenuto dei loro piatti aveva spesso trascorso più tempo in vita di se stessi o i propri genitori. Fino a 60 anni, dopo tutto, non è una cifra insolita per questi giganti tra i crostacei, la cui crescita lenta faceva capo ad un altrettanto cadenzato ritmo riproduttivo. Un tipo di fattori che, come sappiamo fin troppo bene, raramente conduce nelle odierne circostanze ad uno stato di conservazione ottimale…

Prima di proseguire nel nostro discorso, rischiando di allarmare eventuali turisti che hanno sperimentato la cucina locale durante un viaggio in Tasmania, sarà dunque opportuno specificare come esistano tre diverse specie di gamberi all’interno del genere Astacopsis, di cui soltanto uno, quello dipinto dal sopracitato prigioniero, si trova oggi menzionato nella lista rossa degli animali a rischio di estinzione redatta dall’organizzazione dello IUCN, con conseguente divieto di cattura e inserimento nei menù gastronomici di maggior fama. La più grande, per inciso, rispetto alle comunque notevoli A. franklini ed A. tricornis, intitolata contrariamente a quanto si potrebbe pensare, non all’uomo ancora oggi maggiormente collegato ad essa bensì il primo addetto alla supervisione geologica del Governo Australiano, Charles Gould, nipote del sopracitato pittore degli uccelli. Citato ogni volta in cui non si dovesse scegliere di riferirsi all’animale con i termini in lingua locale di lutaralipina o tayatea, celebrando ulteriormente l’importanza economia tradizionalmente attribuita alla cattura e impiego sistematico delle sue dolci, ancorché spinose carni. Quando ancora la popolazione complessiva delle A. gouldi si aggirava attorno al milione di esemplari, contro circa il 10-20% che ne restano attualmente in vita, sulla base delle stime più precise di cui possiamo disporre. Numeri non facili da ottenere, data l’abitudine di simili creature a vivere in luoghi difficili da raggiungere, sotto le acque tutt’altro che trasparenti di paludi ed acquitrini dell’isola, semi-nascoste tra la fanghiglia. Il che costituisce, al tempo stesso, il loro punto debole, data la stretta dipendenza dei loro piccoli, non più grandi di un’unghia umana, dalla furtività per sfuggire ai numerosi predatori possibili, che includono numerose specie di pesci, la “lontra australiana” o rakali e persino il piccolo, ma voracemente percettivo ornitorinco. Ma ritirarsi tra le sabbie tende a diventare più difficile, in zone sottoposte all’eutrofizzazione per lo scarico di nitrati o l’accumulo di sedimenti dovuti alle industrie ripariane rurali. È stato stimato, ad esempio, come una quantità incalcolabile di esemplari sia perita per l’effetto del prelievo di legname, capace di privare i loro ambienti dell’ombrosa quiete necessaria alla prosperità di questa stirpe. Altro problema, nel frattempo, è la viabilità stradale, con molti gamberi, soprattutto i maschi, inclini a lunghe migrazioni periodiche o stagionali, con conseguente attraversamento delle sottili strisce asfaltate e il rischio di finire investiti. Soprattutto vista la loro problematica incapacità di insinuarsi nei canali scavati sotto le vie forestali per lasciar passare i torrenti, con conseguenze preferenza per la superficie battuta dai frequenti e inevitabili pneumatici che tanto spesso tendono a porre fine alla loro esistenza. Causando danni che difficilmente possono venire sopravvalutati, perché le tali creature tendono a richiedere almeno una decade prima del raggiungimento dell’età riproduttiva, e pur mettendo al mondo tra le 224 e le 1.300 uova per ciascun singolo evento nuziale sono solite farlo soltanto una volta ogni due anni. E sarà comunque soltanto una minima parte, dei piccoli finalmente fuoriusciti dalle capsule strategicamente portate in giro dalla madre per più di un anno, a sopravvivere fino al raggiungimento dell’età adulta, quando il sistema naturale avrebbe previsto la loro sostanziale immunità a qualsivoglia pericolo determinato dall’altrui bisogno di alimentazione.

Ciò detto è significativo il modo in cui molti individui, e con essi l’intero senso comune della Tasmania, sembri essersi spostato in un collettivo e sincero senso di responsabilità nei confronti del gambero gigante, il cui carisma sembrerebbe aver colpito sia le nuove che vecchie generazioni. Celebrati sui giornali e nei programmi televisivi sono gli attuali “uomini delle aragoste”, figli di famiglie in cui la cattura autogestita di simili pasti prelibati era solita avvenire con cadenza significativa, ma che oggi scelgono di sollevare i loro beniamini soltanto per effettuare misurazioni, esami veterinari o posizionare segnalatori a scopo di studio delle abitudini di questa specie progressivamente più rara. Personaggi come il conservatore Todd Walsh, il direttore di un centro di recupero Kevin Hyland, il segretario per il territorio Greg Taylor o addirittura la signora tasmaniana che, si narra in un famoso aneddoto, apre il portone del proprio giardino due volte l’anno per lasciar passare un singolo gambero durante le proprie prevedibili peregrinazioni stagionali. E che dire dello stesso Jeremy Wade, celebre pescatore e divulgatore scientifico per la Tv britannica, che andò a caccia e mostro alle telecamere questi giganti in un suo memorabile episodio!
Davvero nessuno sembrerebbe immune al fascino di un kaiju più tangibile dei nostri giorni. La “cosa senza spina dorsale” più grande dimostratosi di abitare i fiumi della nostra Terra in epoca coéva. Notazione planetaria, piuttosto che geograficamente attribuita ad un territorio in particolare. Così come parrebbe indubbiamente appropriato, per ciò che sembra a tutti gli effetti un vero e proprio mostro proveniente da pianeti sconosciuti.

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