L’armata sferoidale degli scheletri fluttuanti nei mari del mondo

Candido segno identitario di una nazione, le scogliere di Dover hanno dato il benvenuto ai viaggiatori nelle Isole fin dall’epoca del tardo Cretaceo. Alte rocce, così come l’indice di rifrazione, habitat d’innumerevoli creature marine e volanti. Ma né piume, né pinne appartengono alle minuscole creature delle moltitudini, che attraverso i secoli e millenni si occuparono di modellare quel paesaggio nelle forme che possiede tutt’ora. Così come moltissimi altri, nell’intero estendersi dei continenti terrestri. Largamente ignoto al senso comune, il coccolitoforo è un tipo di alga unicellulare facente parte del plankton autotrofico (vegetativo) nel suo complesso responsabile della stragrande maggioranza del carbonato di calcio all’interno degli oceani. E come derivazione di ciò, anche dei depositi di gesso misto a pietra calcarea che spiccano in particolari località geografiche degne di nota. Null’altro che il residuo defunto, essenzialmente, delle innumerevoli generazioni trascorse di questi esseri galleggianti misurabili in nanometri, letterali decine dei quali entrerebbero sopra la punta di un singolo capello. Il che rende alquanto sorprendente, quando li si osserva al microscopio, la complessità e varietà di forme che emergono tra le diverse specie e non solo, visto come un singolo organismo possa variare sensibilmente nel corso delle diverse generazioni o fasi della sua unitaria esistenza. Nel modo in cui il suo organulo di Golgi, così chiamato dal suo scopritore italiano nel 1898, si occupa di calcificare le sostanze presenti in soluzione nelle acque, apprestandosi a formare il distintivo esoscheletro che accompagnerà l’intera esistenza di queste creature. Generalmente rappresentate a scopo divulgativo dalla specie cosmopolita Gephyrocapsa huxleyi, il cui aspetto visibile si presenta come un agglomerato di ciambelle perforate, ciascuna delle quali rappresenta nei fatti un singolo organismo. Mentre tutte quante collegate assieme, come si presentano comunemente in natura, prendono il nome di coccolitosfera, nella placida consapevolezza del più elevato grado di protezione, nonché solidità strutturale, derivante da tale particolare configurazione. Molte sono d’altronde le teorie, nessuna delle quali confermate, sul perché esattamente questi microrganismi tollerino il dispendio di una così elevata quantità di risorse, al fine unico di ricoprirsi di un’armatura che non serve a molto contro i loro nemici principali, piccoli pesci, zooplankton predatorio e larve di molluschi. Inclusa quella che vedrebbe un simile “vestito” come protezione da infezioni virali, piuttosto che ausilio al controllo della temperatura e del galleggiamento, piuttosto che una mera conseguenza collaterale del particolare approccio da parte dei coccolitofori alla produzione di clorofilla. Ciò detto, tale strategia evolutiva sembrerebbe poter vantare non soltanto effetti significativi sulla prosperità biologica dei suoi conduttori, ma anche la composizione stessa, ed il possibile destino futuro, dell’intero ecosistema marino del nostro mondo…

Effetto fondamentale di simili esseri eucarioti, inseriti in via ipotetica nel phylum degli Haptista, sembrerebbe dunque la produzione di copiose quantità di ossigeno, in una quantità mai realmente sottoposta a quantificazione scientifica rispetto alle piante verdi di superfice. Le conseguenze delle loro propagazioni maggiormente significative, tuttavia, sono molteplici e non sempre semplici da prevedere. Una caratteristica primaria dei loro esoscheletri calcificati resta infatti, come dicevamo, il colore candido come le ossa umane, che moltiplicato un’infinita quantità di volte sulla superficie degli oceani tende ad aumentare il loro indice di albedo (capacità riflettente) inibendo la penetrazione della luce agli strati inferiori ed incrementando al tempo stesso la temperatura media, con conseguenze potenzialmente deleterie sulla biodiversità sottostante. Anche per questo i coccolitofori non condividono nella maggior parte dei casi l’habitat con grandi quantità di altri esseri microscopici, anche quando la loro apparente predisposizione a tratti d’oceano privi di significative risorse biologiche non sia bastata a saturare totalmente tratti d’oceano per il resto prossimi al completo spopolamento. Una finalità perseguita potendo contare su una caratteristica attestata soltanto in particolari tipologie di creature incluse categorie sociali come gli imenotteri, l’aplodiplodismo. Che consiste nella capacità di alternarsi, attraverso le generazioni, in esemplari dotati di due serie di cromosomi con altri che possiedono uno soltanto, il che tende a comportare tra gli Haptista anche un cambio morfologico assolutamente degno di nota. Che li vede transitare nella forma aploide durante i periodi di carenza di risorse utili alla calcificazione verso figure geometriche più semplici, fino al caso della specie Braarudosphaera bigelowii (Fig. C) dotata della forma di un dodecaedro perfetto, dal diametro di 10 micrometri complessivi. Non che l’una o l’altra configurazione genetica faccia grande differenze in termini di strategia riproduttiva, essendo tutti i cocolitofori capaci della riproduzione asessuata mediante mitosi nella fase aploide, o mitosi in quella diploide, con lo stesso risultato della creazione di due singole celle indipendenti pronte ad accorparsi nella formazione dei nuovi coccoliti predisposti istintivamente all’interno del piano che governa la loro ripetitiva e modulare esistenza. Tra cui quelli con la forma di un tamburo, che s’impernia nella sfera dei propri simili (Scyphosphaera apsteinii) o ancora le molte varietà dotate di appendici mobili o tentacolari che fuoriescono dall’esoscheletro calcareo (Syracosphaeraceae, Prymnesiophyceae) apparentemente utili a dirigerne per quanto possibile i fluttuanti movimenti attraverso la colonna oceanica di appartenenza.

Importanti marker negli effetti del riscaldamento terrestre e l’inquinamento dei mari, i coccolitofori sono visti talvolta come un rischio, in altri casi una risorsa nella conservazione dell’ambiente in quest’epoca soggetta a innumerevoli cambiamenti, molti dei quali tutt’altro che positivi. Una loro dote forse utile, a tal proposito, può essere individuata nell’innata resistenza a fattori di contaminazione alcalini, che potrebbe consentirgli di contribuire nei prossimi secoli a una filtratura delle acque planetarie, pur aumentando in via indiretta la quantità di CO2 presente nell’atmosfera. Un’alga calcificatrice che non riesca a completare il proprio ciclo vitale, catturando nuovamente con la fotosintesi la quantità di carbonio prodotto nel corso del processo, ha purtroppo un peso negativo sull’effetto serra e la reale quantità di gas respirabili presenti nell’atmosfera.
Il che ha visto collegare una simile classe di creature fin dagli anni ’60 all’ipotesi Gaia di James Lovelock, il chimico britannico ideatore del concetto secondo cui tutti gli esseri viventi della Terra agiscano come un unico sistema, governato dalla predisposizione innata a preservare se stesso. Il che basterebbe a qualificare l’odierna civiltà industrializzata come il peggiore dei parassiti, una sorta di cancro incline a sovvertire l’ordine naturale di ciò che la circonda. E non è particolarmente facile, né scontato, trovare spunti utili a confutare tale visione negativa del destino che incombe…

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