La seducente narrazione che accompagna il raro e misterioso lamantino africano

Come si può facilmente desumere dal termine latino usato al fine d’identificarne i membri, la famiglia dei sirenii ha lungamente generato, nei territori facenti parte del proprio habitat, numerosi miti e leggende tra le diverse popolazioni. Composta unicamente da due famiglie superficialmente simili tra loro, essa le vede essenzialmente suddivise per diffusione tra la parte occidentale e quella orientale del globo terrestre. Così il lamantino (fam. Trichechus – nessuna relazione col pinnipede dalle lunghe zanne) si distingue dal dugongo (fam. Dugongidae) per una serie di tratti geneticamente significativi, quali l’assenza nel primo della terza vertebra cervicale, la forma tondeggiante della coda piuttosto che a freccia e la posizione più arretrata delle narici, nel modo lungamente osservato dai naturalisti presso il meridione degli Stati Uniti, ove sopravvive con difficoltà lungamente note la sottospecie T. manatus latirostris, popolazione distinta di quella situata nel Golfo del Messico. Ciò che molti non sanno, tuttavia, per la natura remota di taluni territori africani e la difficoltà nell’esplorarli, oltre alla natura riservata di queste creature del peso di 400-500 Kg, è che nella parte ovest dell’Africa sussiste l’areale di una differente specie di lamantino chiamato T. senegalensis, essenzialmente distribuito tra Nigeria, Senegal, Angola, Guinea… Ogni recesso, insomma, ove il complicato bacino idrico del più antico dei continenti s’intreccia in una rete spesso satura di sedimenti e per questo impenetrabile agli sguardi. Finché la figura di una di queste creature, emersa al fine di riempirsi i polmoni d’ossigeno, non prende a stagliarsi contro l’orizzonte osservabile dagli occupanti dell’imbarcazione di turno. Finendo per sembrare, come da copione, la ragionevole benché tondeggiante approssimazione di una figura umana. Fraintendimento particolarmente straniante nel caso degli esemplari femminili che hanno recentemente partorito, le cui mammelle pendule possono avvicinarsi nelle forme a quelle di una donna. Il che ha rappresentato, nei secoli a partire dall’inizio dell’Era moderna, una parziale fortuna per questi animali immediatamente associati dai locali alle rappresentazioni europee delle sirene. E successivamente elette a forma fisica, nonché possibilmente tangibile, della divinità animistica dei fiumi Mami Wata (letteralmente: Madre delle Acque) venerata nei templi tradizionali come protettrice, e qualche volta seduttrice dei pescatori. Una figura conturbante rappresentata con l’aspetto di una donna di paesi lontani, spesso caucasica o asiatica, al centro di numerose leggende con risvolti apotropaici o la concessione di munifiche ricompense terrene. Tutto a partire dal verificarsi di un ideale, quanto inconfondibile incontro…

La leggenda originale, così come narrata all’antropologo Ronald Wintrob nel 1955-56 da un’abitante del Togo intervistato come parte delle sue ricerche in Africa, prevedeva dunque l’incontro accidentale con Mami Wata intenta a sistemarsi i capelli sulla riva di un fiume, mediante l’utilizzo di un pregiato pettine d’oro. Frangente in cui, secondo la sapienza popolare, l’umano avrebbe dovuto lanciare un forte grido nel tentativo di spaventarla: al che la ninfa spaventata, lasciando cadere il suo strumento, avrebbe permesso all’uomo di sottrarglielo ed eleggerlo a pregiato portafortuna per la sua famiglia e dimora. Finché a qualche notte di distanza, come da copione, la creatura sovrannaturale gli sarebbe comparsa innanzi nel profondo della notte, chiedendo enfaticamente la restituzione del pettine. Ed offrendo come ricompensa munifici favori, tra cui ricchezze, tesori, protezione dai pericoli del fato. Uno scambio d’altra parte non del tutto privo di pericoli, visto come le persone di sesso maschile potessero teoricamente restare stregate da Wata, incorrendo in vari tipi di disturbi psichici effettivamente attestati nella storia clinica di questi paesi. Interessante anche l’evoluzione iconografica di questo criptide basato su animali effettivamente esistenti, le cui rappresentazioni avrebbero deviato progressivamente tramite la diffusione nel XIX secolo di fotolitografie raffiguranti Nala Damajanti, danzatrice e domatrice di serpenti del circo Barnum mostrata con finalità pubblicitarie assieme ai propri ubbidienti rettili, così come fatto per l’insospettata controparte delle coste e l’entroterra africano. Mentre in epoca coéva, una versione maschile della divinità chiamata Papi Wata sarebbe stata collegata alle raffigurazioni indiane del dio scimmia Hanuman, la cui forma del volto può effettivamente ricordare, molto alla lontana, quella del muso di un lamantino. Soltanto in seguito e con la progressiva diffusione del cristianesimo, entrambe le creature mitologiche vennero demonizzate, nonché incluse nella lista di pericoli capaci di capovolgere una barca e nelle giuste condizioni, aggredire o divorare i loro abitanti. È facilmente immaginare, purtroppo, le conseguenze che un tale mutamento culturale avrebbe portato sulla conservazione e considerazione del T. senegalensis, cacciato fin quasi all’estinzione verso l’ultima decade del Novecento, quando finalmente il governo della Nigeria smise di offrire permessi specifici a chiunque fosse intenzionato a ricavare un profitto dalla carne, il grasso e la pelle di questi esseri del tutto mansueti ed altrettanto imponenti. Mangiatori ecologici, nella realtà dei fatti, di sole fonti di nutrimento vegetali ivi incluse alghe e i rami bassi delle mangrovie, così come fatto dai loro cugini lievemente più grandi divisi dall’intero estendersi dell’Oceano Atlantico tra i continenti. Non che il commercio, da parte dei cacciatori di frodo, sia cessato in epoca recente, anche per le doti sovrannaturali attribuite ai rimedi creati dal corpo del lamantino, il cui pene viene ritenuto in grado curare l’impotenza, l’osso delle orecchie deviare i proiettili, gli occhi allontanare le maledizioni e portare la buona sorte. Per non parlare delle interiora, utilizzate per la preparazione di una cura consigliata a chiunque abbia subito fratture. Viene stimato, a tal proposito, come il valore complessivo di un singolo esemplare di lamantino ucciso possa agevolmente superare i 2.000 dollari, rendendo qualsiasi normativa di protezione specifica del tutto inutile, senza l’accompagnamento di effettive metodologie di sorveglianza. Che tardano paradossalmente a palesarsi, nonostante il successo comprovato di altre iniziative compiute a vantaggio della conservazione di questi preziosi, insostiutibili animali.

Spesso citata, a tal proposito, l’impresa ingegnosa compiuta a partire dall’inizio degli anni 2000 da parte della AMMCO (African Marine Mammal Conservation Organisation) consistente nell’impiego di agenti biologici per il recupero di un prezioso bacino idrico, tradizionalmente abitato da centinaia di lamantini. Sto parlando del lago Ossa in Camerun, invaso circa mezzo secolo a questa parte da una devastante fioritura dell’alga galleggiante Salvinia, capace di privare d’ossigeno e luce non soltanto i rari sirenidi, bensì l’intera biosfera sottostante inclusi i pesci alla base della fondamentale strategia di approvvigionamento dei villaggi locali. Fino all’introduzione calibrata su interventi simili in Africa ed Australia a cavallo degli anni ’80, del coleottero sudamericano Cyrtobagous salviniae, capace di divorare sistematicamente i rizomi e boccioli del problematico e prolifico vegetale. Fino ad una riduzione stimata di circa il 90% della copertura dell’alga nel giro di due decadi, che ha permesso ad oggi la ripopolazione da parte della fauna del lago, incluso nelle migrazioni periodiche verso l’entroterra dei lamantini. Il cui destino vagabondo, ad oggi, appare ancora gravemente condizionato dalle dighe idroelettriche ed altri ostacoli strutturali lungo il corso dei fiumi africani a partire dalle coste distanti, una situazione difficilmente risolvibile senza modificare le regole fondamentali della modernizzazione africana. E ciò al di là di qualsiasi considerazione mistica, per l’effetto della divinità più influente del mondo moderno: il Dio Profitto, che supera ogni confine e differenza tra le culture. Persino quella tra il mondo fisico e la propria antica, evanescente controparte sovrannaturale.

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