Chi guarda verso il trionfo del progetto inalienabile della natura, ben presto tende a trarre la fondamentale conclusione che ogni uccello, pesce o animale di terra rappresenta la perfetta comunione di armonia estetica e prerogative di sopravvivenza, proprio nell’idonea geometria che si realizza nella forma di ogni essere vivente. Pensate, a tal proposito, ciò che sembra essere l’aerodinamica, per come si palesa nell’aspetto dei pennuti nell’azzurro cielo: due ali, un becco, una coda. E se uno specchio fosse a tal proposito disposto, in posizione longitudinale all’asse di quei volatori, essi comparirebbero del tutto inconfondibili nel proprio senso speculare. Esattamente come una persona. E gli aerei, invece? Per gli storici che provano il bisogno di guardare addietro, lo spirito ed il senso dello stesso intento reso manifesto dal progetto umano di librarsi può essere individuato nel primo esempio di velivolo più pesante dell’aria: il Flyer dei fratelli Wright del 1903, in cui pur nell’equidistanza delle eliche, pilota e motore si trovavano in reciproca opposizione: l’uomo a sinistra, la macchina a destra. Giacché nella facilità di correggere l’assetto grazie ad impennaggi ed alettoni, non sussiste alcun tipo di ragione pratica per cui gli aerei dovrebbero presentare alcun tipo di simmetria. Come ampiamente dimostrato, a suo tempo, dalla pletora d’ingegnosi progetti disegnati da Richard Vogt. L’ingegnere tedesco nato a Schwäbisch Gmünd nel 1894, che dopo una gioventù trascorsa ad ammirare i coraggiosi uomini nelle loro folli macchine volanti, decise di tentare anche lui di farsi strada nel nascente settore. Fino a quando nel 1912 all’età di 18 anni, aiutato da un amico e di fronte a niente meno che il futuro Wehrwirtschaftsführer del Terzo Reich, Ernst Heinkel si trovò ad effettuare il primo collaudo di un aereo di sua concezione da una collina poco fuori la casa natìa. Esperimento destinato, per sua sfortuna, a fallire miseramente. Ma il seme era gettato e la terra indubbiamente fertile, come si usa dire, se è vero che già nel 1916, tornato dal fronte della grande guerra per una ferita, avrebbe trovato lavoro presso la Luftschiffbau Zeppelin di Friedrichshafen, sul lago di Costanza. Per poi laurearsi in ingegneria all’Università di Stoccarda, e con tale qualifica essere assunto da Claudius Dornier, fondatore ed amministratore dell’omonima compagnia aeronautica. Iniziò quindi una trasferta all’estero di 10 anni, che l’avrebbe portato brevemente in Italia e poi, per la maggior parte del tempo in Giappone, dove collaborò con Kawasaki istruendo tra gli altri Takeo Doi, il futuro creatore del Ki-61 Hien. Ma il suo contributo maggiore alla storia della tecnologia sarebbe giunto solo successivamente, a seguito dell’assunzione nel 1933 alla Blohm & Voss di Amburgo, una compagnia storicamente attiva in campo navale e che dopo il primo terzo di secolo, aveva cominciato a produrre mezzi volanti per la potente macchina industriale tedesca. Poiché fu proprio in questi capannoni, tra tutti i luoghi possibili, che Richard Vogt sarebbe rimasto obliquamente e metaforicamente fulminato sull’asimmetrica Via di Damasco…
Ogni grande ingegnere aeronautico del Novecento, come avveniva per gli artisti del Rinascimento, aveva una soluzione tecnica preferita, il suo “marchio di fabbrica” se così vogliamo chiamarlo, destinato a caratterizzare le principali proposte della sua carriera autorale. Nel caso di Vogt, per lo meno in un primo momento, si sarebbe trattato del longherone tubolare, un tipo di supporto interno alla carlinga pensato per offrire la funzionalità addizionale di serbatoio per il carburante. Destinato ad essere presente, nel primo caso degno di nota, all’interno del B&V Ha(mburger) 137 del 1933, il bombardiere in picchiata con ali di gabbiano che venne proposto per rispondere all’appalto del ben più celebre Junkers Ju 87 Stuka, con conseguente vittoria di quest’ultimo alla selezione del Comando Maggiore. Un fallimento che non sarebbe stato attribuito all’ingegnere del Württemberg, se è vero che già nel ’37 il datore di lavoro l’avrebbe messo nuovamente a capo di un importante progetto, per rispondere all’esigenza della Luftwaffe di un aereo da perlustrazione con equipaggio di tre persone, una lunga portata e buoni presupposti di difendersi da eventuali attacchi nemici. Al che il suo tavolo da disegno sarebbe stato il testimone di quello che potremmo definire, a pieno titolo, come uno degli aerei più bizzarri e distintivi nell’intera storia dell’aviazione. Il BV 141 (originariamente Ha 141) era un velivolo a doppia carlinga ma singolo motore, con ala bassa e l’impianto in questione collocato nel corpo principale, situato fuori centro a sinistra. Mentre l’equipaggio avrebbe trovato posto nella più corta gondola in posizione speculare, da cui godere di una migliore visibilità ed arco di tiro per le quattro mitragliatrici MG17 incorporate nella dotazione di bordo. Con un ulteriore accorgimento, a vantaggio di quest’ultime, nell’assenza della parte destra della coda, giudicata in fin dei conti non necessaria. L’effetto conseguente, nel suo complesso, risulta straniante: quello che sarebbe rimasto come il più celebre aereo della B&V sembra quasi incompleto, del tutto impossibile nella sua configurazione aliena a qualsivoglia esempio biomimetico pregresso. Ciononostante, l’aereo risulta stabile, mantenendo il volo livellato grazie alla lunghezza ineguale delle ali e con eventuali deviazioni di rotta facilmente correggibili mediante la regolazione (trim) dell’impennaggio di coda. A restare particolarmente colpito dall’insolito aspetto ed ancor più improbabili vantaggi posseduti dalla creazione di Vogt sarebbe stato dunque l’asso dell’aviazione ed all’epoca maggiore Ernst Udet, che a partire dal 1940 sarebbe stato uno dei principali sostenitori dell’aereo asimmetrico parlandone ampiamente ai vertici del Reich. Ma l’opportunità di entrare in produzione, dopo i 28 esemplari prodotti fino a quel momento, alcuni in configurazione di bombardieri, sarebbe sfumata con l’approvazione ufficiale del concorrente Focke-Wulf Fw 189 Uhu (Gufo) un altro aereo a doppia gondola dotato di ampie finestre in plexiglass per l’avvistamento degli obiettivi nemici. La fine di un sogno, ma non l’ambizione per colui che aveva plasmato una tale cosa di creare aerei che non fossero più incatenati ai ferrei dogmi della geometria consequenziale. Incluso il BV 138 soprannominato “Scarpa dei Cieli” un idrovolante trimotore strutturalmente simile a un catamarano. La cui evoluzione successiva ed ancor più massiccia, il BV 238 gli sarebbe valso la celebre didascalia satirica su una rivista britannica, in cui veniva definito in rima: “L’uomo originale, capace di disegnare, l’aereo più orribile del vasto mare. Ecco a voi in volo sul Baltico, un’altra mostruosità di Vogt.”
Sul fronte degli aerei asimmetrici, con ulteriori proposte destinate a rimanere soltanto allo stato di mere ipotesi, Vogt continuò dunque a lavorare all’idea fondamentale dell’efficace benché marginale BV 141. Con i suoi P.194 dal motore a jet, il P.178 per il bombardamento in picchiata, ed in seguito l’avveniristico P.202. Una aereo a reazione dotato di ala obliqua, capace di anticipare concettualmente di quasi mezzo secolo il NASA AD-1 a geometria variabile, benché all’epoca mancasse naturalmente la fattibilità di un meccanismo in grado di modificare in base alla velocità la disposizione dell’ala. Dopo un’ultima proposta in ambito tedesco sul finire del conflitto denominata BV P.215, di un caccia a reazione per il combattimento notturno con ali a freccia dotate di curiose biforcazioni, Vogt venne come molti altri scienziati e tecnici tedeschi accolto negli Stati Uniti, durante l’implementazione della cosiddetta operazione Paperclip. Un’opportunità che gli permise di continuare la carriera, trovando una posizione di rilievo come capo della divisione aerodinamica della Boeing. Ove avrebbe inventato, negli anni ’60, le estensioni stabilizzanti delle ali oggi note con il termine di winglets o wing tips.
Vissuto fino agli 84 anni Vogt sarebbe venuto a mancare nel 1979, dopo aver dimostrato al mondo i vantaggi che potevano derivare da una mente aperta e in grado di guardare oltre le cognizioni largamente acquisite nel mondo incline a evolversi della tecnologia volante. Come molti altri capi di stabilimenti tedeschi all’epoca del Nazismo, incluso il celebre Von Braun, nelle sue fabbriche avevano lavorato prigionieri provenienti dai campi di concentramento di tutta la Germania. E difficilmente avrebbe potuto risultare del tutto inconsapevole, perciò, delle terribili scelte e i gesti compiuti da quel regime. Una lunga e tranquilla esistenza dopo il concludersi delle ostilità, tuttavia, l’avrebbero lentamente aiutato a dimenticare.