In base al testo di un vecchio proverbio, si è talvolta soliti affermare: “Le strade dell’Inferno sono lastricate di ottime intenzioni”. Lo stesso, d’altro canto, vale per il Paradiso. Strade o trombe verticali di ascensori a dire il vero, di un qualcosa che potremmo definire come l’ago di collegamento, il nesso imprescindibile tra sopra e sotto, presente e futuro, sopravvivenza e inevitabile auto-annientamento della collettività urbana. Fino alla creazione di 30 milioni di effettivi co-inquilini, intesi come gli abitanti di un singolo spazio architettonico, per quanto ciò possa sembrare improbabile, persino dal punto di vista di colui che giunse a dargli forma nella propria fervida immaginazione di scienziato urbano. Il soggetto dell’intero balzo quantico verso il possibile reame delle cose ha dunque il nome di Toshio Ojima, noto educatore, ricercatore, studioso ed ingegnere che insegnò all’università tokyoita di Waseda. Quella stessa città che avrebbe visto un giorno disgregarsi, scomparire al fine di creare un qualche cosa di assolutamente nuovo: la più impressionante, inimmaginabile realizzazione mai teorizzata del concetto di arcologia. Avete presente? Il tipo di costrutto abitativo sufficientemente grande da essere dotato di residenze, luoghi di lavoro, fattorie, fabbriche robotizzate, tanto popolare nella fantascienza letteraria ed altre opere d’ingegno di generi confinanti. Benché sia raro, addirittura in quel contesto, che un autore immagini qualcosa di costruito dalla mera umanità, che possa nel contempo superare l’altezza del monte Everest, considerato fin da tempo immemore il tetto del mondo. Troppo improbabile? Ma un’evoluzione che giammai nessuno avrebbe avuto modo, né ragione di allontanare. Per lo meno nell’idea creata in prima persona dal professore ed illustrata dal disegnatore di concept art Masaki Yabuno, che sarebbe stata oggetto di alcune ragionevoli disquisizioni durante l’evento storico del summit della Terra del 3-14 giugno 1992 a Rio de Janeiro. Il primo grande incontro di nazioni organizzato in merito al tema dell’ecologia e il momento esatto, nell’itera della progressione generazionale contemporanea, in cui sarebbe stato elaborato e promulgato il protocollo di Tokyo. Sebbene molti meno ricordino, o abbiano mai preso in seria considerazione, l’idea parimenti dedicata alla risoluzione dell’impronta carbonica della popolazione globale, il soggetto per riunire l’attuale popolazione di una megalopoli in uno spazio paesaggistico comparativamente insignificante. Ciò grazie all’edificazione della Tokyo Babel Tower (東京バベルタワー) iper-grattacielo dalla forma tondeggiante vagamente riconducibile a una lettera “A” , con riferimento alle soluzioni strutturali utilizzati dall’attuale Tokyo Tower e la sua dichiarata ispiratrice, la torre Eiffel di Parigi. Ma un’altezza superiore ai 10.000 metri e base di 110 chilometri quadrati, essenzialmente sufficiente a ricoprire del tutto i confini urbani all’interno dell’anello urbano della ferrovia di Yamanote. Poiché non sarebbe forse meglio riunire tutte le proprie uova all’interno dello stesso paniere, quando quest’ultimo può essere reso impervio a terremoti, inondazioni, persino l’impietoso passaggio dei secoli nell’inconoscibile avvenire?
La torre di Babele di Tokyo, per quanto il suo nome possa alludere ad una storia biblica cautelativa e non propriamente a lieto fine, costituiva essenzialmente l’ipotetica conseguenza di un potente e collettivo senso d’ottimismo del grande Giappone. Negli anni all’apice della ben nota bolla economica, quando a seguito di un boom commerciale totalmente privo di precedenti il valore degli immobili e le imprese nazionali raggiungeva un grado del tutto inimmaginabile fin dai tempi del dopoguerra. E le aspirazioni dei capi d’azienda tendevano ad ascendere di pari passo, assieme a quelle dei teorici d’imponenti ed impossibili strutture costruite dall’uomo. Fu questa la nascita di una disciplina internazionale ma identificata principalmente con l’espressione anglo-nipponica di hyper-building (ハイパービルディング) mirata a collocare sopra il piedistallo delle “idee possibili” la creazione del tutto ipotetica di una nuova classe di strutture dalle proporzioni letteralmente spropositate. Tokyo fu un terreno particolarmente fertile in materia, con idee concepite sul finire degli anni ’80 quali Aeropolis 2001 e Sky City 1000, con forme ancora riconoscibili di un grattacielo ed altezze rispettivamente di 2 ed 1 Km, ben presto seguite dall’immaginario che qualcuno si sarebbe affrettato a definire distopico, benché pieno di ambiziose opportunità future. Ivi figurando, la Mega Piramide di Shimizu (750.000 persone, 750 metri d’altezza) e l’X-Seed 4.000 della Taisei Corporation (1995) avveniristico palazzo a forma di monte Fuji di 4 Km capace di contenere idealmente l’intera popolazione di Tokyo. Ed è qui che l’orizzonte temporale inizia ad allungarsi, ipotizzando un tempo di completamento pari a un minimo di 3 decadi, possibilmente incline ad allungarsi in corso d’opera in maniera niente meno che esponenziale. Così come teorizzato dallo stesso Ojima per il proprio mastodonte dell’altezza di 10 Km, destinato a palesarsi in senso materiale soltanto come “ottava generazione” della megalopoli giapponese, possibilmente entro il prossimo secolo e mezzo, oppure due. Presumendo, a tal proposito, i notevoli avanzamenti in campo tecnologico, ingegneristico e di scienza dei materiali affinché qualcosa di tanto ponderoso ed imponente potesse a pieno titolo entrare nella sfera del possibile, per non parlare dei notevoli cambiamenti sociali e priorità umane affinché un simile mega-progetto potesse effettivamente prendere forma. Il tutto in base ad uno schema, ad ogni modo, approfonditamente definito nel suo studio di fattibilità, in cui l’iper-palazzo sarebbe stato suddiviso in cinque livelli o “regioni” distinte, dallo spazio disponibile progressivamente minore. La prima, quella nel corpo inferiore con i propri 100.000 acri e fino ai mille metri d’altezza, definita umana e contenete il grosso delle infrastrutture, residenze ed altri spazi abitativi dell’arcologia. Mentre al di sopra di questa e fino ai 3.500 metri avrebbe trovato collocazione lo spazio delle nubi, occupato in buona parte da risorse di tipo commerciale ed amministrativo. Per salire dunque ai 6.000 metri, ove sarebbero giunte le aree dedicate alle attività ricreative e di educazione. Oltre le quali la torre avrebbe dedicato spazio unicamente a centri di ricerca e istituzioni scientifiche e industriali, situate all’altezza massima di 9.000 metri. Fino al culmine del cosiddetto Cosmos, un letterale laboratorio spaziale ove ipotetici aerei, o addirittura astronavi, avrebbero potuto trovare il proprio spazio d’attracco ideale.
L’idea era chiaramente provocatoria, eppure non del tutto irrealizzabile dal punto di vista concettuale. Naturalmente, l’organizzazione tecnologica e l’approvvigionamento di risorse avrebbe necessitato dell’individuazione di metodologie e sistemi totalmente privi di precedenti. L’intera struttura, ad esempio, avrebbe dovuto essere pressurizzata con un involucro esterno particolarmente solido, pena la generazione di un differenziale in grado di scardinarne letteralmente l’intera struttura interna. Lo spostamento interno si sarebbe dovuto sviluppare inoltre in senso orizzontale oltre che verticale, necessitando dell’impiego di veri e propri treni d’ascensori con capacità di spostamento estremamente complesse ed innovative.
Nient’altro che ostacoli di poco conto, di fronte alla trasformazione del modo in cui avrebbe potuto svilupparsi l’ideale civiltà futura, non più un peso devastante per l’ambiente, bensì parte di una mera nota a margine relativamente priva d’impatto, nell’economia dell’intera economia paesaggistica planetaria. Con buona pace dei lettori troppo inclini a collegarla in senso teorico a visioni apocalittiche d’impossibili banlieue o favelas galattiche, sulla falsariga degli invivibili alveari teorizzati nel franchise fantascientifico di Warhammer. O i letterali inferni di cristallo e acciaio delle arcologie del filone fantascientifico cyberpunk. In cui l’uomo non è ancora stato in grado di dar adito alle proprie aspirazioni spaziali. Ma ha da tempo superato la curva dell’ottimale sfruttamento di risorse, spazi e aspirazioni collettive dei suoi simili su questa Terra ormai condannata. In cui le soluzioni possibili continuano a diminuire, nella visione necessariamente pessimistica del nostro domani.