La tecnica desueta per costruire un acquedotto dai tronchi di pino

Convivere implica efficienza e le indistinte collettività attraverso i secoli, anche quando l’inerente umidità poteva risultare abbastanza, non si sono mai davvero accontentate di una pioggia ogni tanto. Poiché un conto è l’acqua che ricade dalle nubi tempestose, un altro è quello stesso fluido incamerato e veicolato come linfa di un sistema di distribuzione, del tipo che i Minoici, prima di chiunque altro, seppero costruire nel mondo antico. Per un labirinto sopra il suolo ed un secondo, in terracotta, in grado d’irrigare i bagni dei palazzi e residenze dei più affermati rappresentanti del potere supremo. Laddove già gli antichi Romani, tra le loro opere d’ingegneria profondamente rinomate, donarono alla gente l’acquedotto e ad irradiarsi da quel valido sentiero sopraelevato, fin dalle acque sorgive delle montagne disabitate, implementarono un sistema di condotte dell’ultimo miglio, create da diversi materiali attentamente selezionati allo scopo. Uno di questi era notoriamente il piombo, secondo alcuni responsabile dell’avvelenamento e conseguente degrado cerebrale di svariati Imperatori. Ed un altro decisamente meno problematico, il semplice legno prelevato in modo molto pratico da dove ce n’era ancora in abbondanza: le dense foreste della macchia mediterranea. Trascorsero i secoli e molto cambiò dal punto di vista tecnologico. Ma non questo: così fino alla fine del Medioevo, ancora nel Rinascimento e persino agli albori dell’epoca Moderna, vaste realtà cittadine continuarono a servirsi delle tubature in legno. Con particolare rilevanza in tal senso per gli insediamenti coloniali del nord-est degli Stati Uniti, storicamente e geograficamente collocabili nel punto antecedente all’invenzione di approcci moderni, in un luogo in cui l’abbondanza di alberi alti e forti superava di gran lunga le aspettative di qualsiasi altro territorio. Ecco allora come, ad oltre due secoli e mezzo distanza, le squadre addette alla manutenzione idrica si trovano a dissotterrare di tanto in tanto, in quel di Boston, New York ed altre città simili, interi tratti di acquedotto che sarebbero perfettamente a loro agio nell’alto capanno di una segheria. Qualche volta ancora in uso prima di essere scoperti e localizzati. Nei casi limite, ad un tal punto funzionali, che l’unica cosa da fare una volta effettuata la riparazione richiesta, è controllare i punti di raccordo e lasciarli dove sono, a svolgere quella mansione multi-secolare per cui erano stati originariamente posizionati. (Se non vengono tirati fuori e posti nelle sale di un pertinente e altrettanto spazioso museo).
Cosa potrebbe mai causare, d’altronde, il degrado sotterraneo di un tronco il cui interno è stato preventivamente svuotato? Nei profondi ambienti ctoni ove l’ossigeno non penetra, e gli insetti xilofagi non hanno l’opportunità di sopravvivere in alcuna immaginabile maniera. E l’acqua scorre, libera ed eterna, fino all’ideale fonte dei nostri candidi e magnifici lavandini…

Un tubo di legno rappresenta dunque il perfetto punto d’incontro tra senso pratico e semplicità di realizzazione. Essendo ancora oggi, nella sua incarnazione quasi attuale in uso negli Stati Uniti come presumibilmente nelle antiche città e villaggi del Vecchio Mondo, nient’altro che un susseguirsi di tronchi trapanati in senso longitudinale, così da ricavare uno spazio cavo del diametro variabile tra 15 e 30 cm, benché casi limite più grandi o piccoli dispongano comunque di attestazioni pregresse. Preferibilmente ricavati dal fusto di alberi dal legno resistente, come pini, sequoie, olmi ed ontani. La condotta veniva a questo punto ricoperta di catrame e dotata di un’estremità svasata e l’altra modellata ad un apposito restringimento, così che con l’applicazioni di generose quantità di stoppa potesse innestarsi in sistema infinitamente estendibile di tronchi. Il tutto confidando come, in reazione all’umidità dell’acqua corrente, le tubature non avrebbero potuto fare altro che ispessirsi guadagnando un livello d’impermeabilità superiore e diventando, in condizioni normali, totalmente refrattarie all’accidentale separazione di tali raccordi. Questo approccio era naturalmente inferiore dal punto di vista prestazionale rispetto alle successive tubature in ceramica, rame, zinco, ferro ed acciaio, sia per portata massima che grado effettivo di permeabilità inerente. Ma aveva dei vantaggi molto significativi in termini di costi e facilità nel reperire il materiale, tanto che a partire dal diciottesimo secolo e fino all’inizio del Novecento sorsero numerose compagnie in Nordamerica specializzate proprio nello svuotamento sistematico dei tronchi, con finalità di distribuzione idrica a chi ne aveva maggiormente bisogno. E per la gente il particolare sapore dell’acqua corrente, contaminato dalla resina presente nei tronchi, diventò un punto cardine delle proprie abitudini domestiche e non solo. D’altronde, va al tempo stesso considerato, le prime tubature metalliche erano tutt’altro che perfette in termini di resistenza all’utilizzo e contaminazione del contenuto, con la corrosione e formazione di tubercoli nel giro della prima decade, laddove un tronco era capace di restare pienamente funzionale per vent’anni o più ed in casi estremi, svariati secoli dal giorno della sua collocazione finale. Un ulteriore vantaggio imprevisto di tale materiale fu individuato nell’operato delle prime brigate antincendio, che iniziarono ben presto a scavare in prossimità di grandi emergenze, fino all’individuazione e conseguente perforazione di uno di questi tronchi, così da ottenere un pozzo artesiano da cui prelevare acqua con i secchi o pompe per allontanare il fuoco. Onde procedere successivamente a “tappare” con un elemento conico il foro impiegato, da cui ancora oggi si usa in lingua inglese il verbo to tap in riferimento all’utilizzo di un idrante cittadino di fattura e cognizione contemporanea.

Una versione migliorata dei tubi in legno può essere nel frattempo individuata nelle condotte costruite con assi curvi e stabilizzata mediante l’impiego di anelli metallici, come una botte, in uso particolarmente nel settentrione statunitense. Di cui ancora oggi esistono degli esempi, perfettamente integri ed almeno in teoria utilizzabili, a ridosso dei principali insediamenti dell’Alaska. Tali vere e proprie autostrade idriche, dalle dimensioni esponenzialmente maggiori, presentavano inoltre il vantaggio di agevolare la rimozione della resina nel giro di poco tempo; garantendo, in tal modo, un flusso di acqua per le abitazioni idealmente e totalmente insapore. Il meglio di entrambi i mondi dunque, così da suscitare la spontanea domanda del perché, oggigiorno e sulla base dei discorsi sostenibili prodotti dall’odierna sensibilità ecologica, un simile approccio non venga ancora utilizzato correntemente.
Finché non si ricorda l’autorevolezza posseduta, allo stato attuale, dai processi di produzione industrializzata resi rapidi e poco costosi dalle logiche dell’economia di scala. Avendo largamente superato, in tal senso, la disponibilità di grandi quantità di arbusti pronti all’uso nella maggior parte delle situazioni vigenti. Si usa dire: “Pianta un albero e le future generazioni ti saranno riconoscenti.” Ma l’acqua nelle sempre più estese periferie urbane, quando serve, è necessaria ora, adesso, prima di subito. Idealmente, già da ieri. In circolo vizioso che porta all’ulteriore riduzione degli spazi disponibili, per piantare tubi in cui l’impronta carbonica iniziale potrà anche risultare minore. Ma non certo quella dei veicoli impiegati, in futuro, onde continuare a mantenere in stato utilizzabile “il buon vecchio” sistema.

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