Il bruco di veicoli che ascende l’arco catenario del parco nazionale a St. Louis

Periodicamente capace di svettare sugli spazi latenti della consapevolezza collettiva, il Gateway Arch di Saint Louis torna di tanto in tanto al centro delle cronache statunitensi, quasi sempre per la stessa identica ragione. Capitò per la prima volta nel 1970, quindi nel 2007, 2008, 2011 e di nuovo all’inizio della scorsa settimana di agosto del 2024, benché non ne sia stata ancora accertata la ragione: un gruppo di turisti sale con la massima tranquillità nel gruppo di capsule integrate, che potremmo definire la versione terrestre dell’astronave russa Soyuz. Quindi dopo una manciata di sferraglianti minuti, mentre tutti assieme risalivano il grande tubo metallico triangolare, avvertono una vibrazione, un contraccolpo, l’assoluta e imprescindibile immobilità. Panico? Terrore? Dipende dal carattere delle persone. Ciò che è certo è che una volta fermi a mezza altezza tra gli zero e 192 metri del remoto culmine, di una struttura larga esattamente 192 metri, tutto ciò che si può ben sperare è che il problema sia rapidamente risolvibile o i soccorsi giungano presto sul posto. Armati di corde, imbracature ed altri utili implementi, affinché le fino a 40 persone, possibilmente chiuse in una delle zampe del metallico mastodonte (80 in entrambe) possano essere laboriosamente trasferite all’adiacente scala di emergenza. Per tornare, con sonori versi di sollievo, a toccare la beneamata terra del Missouri con la suola delle proprie scarpe.
Al che sorgono spontaneamente due domande. La prima relativa a come, ancora oggi, possa succedere qualcosa di simile. Mentre la seconda, avendo come origine l’umano senso di sorpresa di persone meno consapevoli, può essere riassunta nella locuzione: “Ah, davvero! Non sapevo che corressero dei treni, all’interno del corpo cavo dell’altissimo arco della città di St. Louis…” Quell’elevato e indubbiamente iconico, svettante monumento, progettato inizialmente nel 1947 dall’architetto finlandese-americano Eero Saarinen, come proposta per il gran concorso destinato a scegliere un potente memoriale cittadino, dedicato al Popolo Americano, la colonizzazione della Costa Occidentale, Thomas Jefferson e i diritti degli afro-americani, più volte tutelati nel Vecchio Tribunale sito sulla stessa riva del fiume Mississippi. Un’iniziativa progettata inizialmente da Luther Ely Smith, avvocato e grande promotore d’iniziative cittadine nel primo terzo di secolo, benché fino a decadi dopo non fosse ancora chiara l’effettiva forma di una simile struttura, destinata a rivitalizzare l’intera immagine dell’antico porto fluviale, in quello che era già stato qualificato nel 1935 e per ragioni di budget come il più piccolo, innegabilmente atipico tra tutti i parchi nazionali statunitensi. Ma neppure lui avrebbe potuto immaginare la maniera in cui letterali migliaia di persone ogni giorno avrebbero potuto osservarlo, in tutta comodità, dai remoti confini dell’azzurra volta celeste…

Avendo concepito la propria proposta come un’elegante e slanciata curva architettonica, costruita in acciaio inossidabile ed effettivamente mantenuta in posizione dal principio del mutuo contrasto, l’architetto Saarinen aveva d’altra parte fin da subito previsto l’incorporamento di un pratico metodo per raggiungerne la cima. Lui che, andato incontro a un’imprevista dipartita nel 1961 a soli 51 anni, ancor prima che il cantiere per la costruzione del suo capolavoro potesse essere aperto, lasciò questo mondo prima che il concetto venisse definito, al di là della vaga cognizione di un qualche tipo di ascensore, che potesse essere adattato alla particolare forma quasi-parabolica del Gateway Arch. Un’idea nei fatti tanto complessa da implementare che ancora nel 1962, soltanto un anno prima che il cantiere fosse ufficialmente aperto, l’Ente Nazionale Parchi non aveva idea di come fare e valutava realisticamente l’eventualità di rendere l’arco accessibile soltanto mediante l’ascesa di un’interminabile, faticosissima rampa di scale. Finché in assenza di risorse alternative, non venne sottoposta all’attenzione della commissione l’idea elaborata dall’esperto ascensorista ed ingegnere de-facto, senza titoli di studio, Dick Bowser, rispondente ai criteri elaborati secondo cui fino a 3.500 persone dovevano essere trasportabili ogni giorno in un periodo lavorativo di 8 ore, all’altezza equivalente di un edificio di 63 piani. Mansione tutt’altro che semplice, per la quale il sistema scelto avrebbe dunque tratto l’origine da uno specifico adattamento del principio della ruota panoramica, consistente in otto cabine cilindriche per ciascuna gamba ascendente dell’arco, collegate ad un cavo di sollevamento che si sarebbe trovato progressivamente sopra, quindi a fianco ed infine sotto allo spazio abitabile di ciascuna vettura. Per lasciare quindi scendere gli occupanti nello spazio panoramico sulla sommità della struttura, un corridoio lungo 20 metri dalle finestre sotto-dimensionate al fine di massimizzare la solidità strutturale dell’intero insieme. Non che ciò riduca, in alcun modo degno di nota, l’effettiva qualità dello spettacolo visibile da un tale punto di vantaggio. Le problematiche affrontate attraverso gli anni, per un meccanismo di una tale complessità, furono dunque da svariati versi superiori alle aspettative. Dalla semplice rottura di un fusibile, capace di causare ritardi, all’interruzione temporanea della corrente. Per non parlare del guasto dei sistemi informatici integrati in epoca più recente, quando nel 2011 tutti oltre 100 persone restarono bloccate per ben 45 minuti lassù, senza luce ed aria condizionata, in attesa che il servizio potesse essere ripristinato. Incidenti certamente non gradevoli, che d’altra parte difficilmente possono essere evitati in circostanze tanto insolite ed estreme come quelle del più alto monumento singolo dell’intero emisfero occidentale.

Niente, in definitiva, nel Gateway Arch può essere considerato usuale. Dalla maniera in cui viene periodicamente lucidato, tramite il sollevamento di intere squadre di operatori specializzati lungo la sua curva matematicamente perfetta. Al cambio delle lampadine che lo illuminano, praticata dagli elettricisti meno soggetti al senso di vergine che la biologia umana possa affermare di aver prodotto. E senza dimenticare il modo effettivo in cui venne posto in opera, dalla MacDonald Construction e la Pittsburgh-Des Moines Steel Company, mediante l’impiego di singoli elementi prefabbricati saldati uno ad uno tramite l’impiego di due gru semoventi destinate ad incontrarsi in cima, soltanto dopo anni di laboriosa attività. Per la collocazione dell’ultima chiave di volta, doverosamente impreziosita dalla presenza di una capsula temporale con le firme dei bambini delle scuole elementari di tutta St. Louis. Gli stessi che sarebbero saliti, in seguito, mediante l’utilizzo dell’invisibile e altrettanto surreale trenino. Parte necessaria di quello che potremmo a pieno titolo chiamare un patrimonio della sua città, nazione, continente, civiltà umana dell’oggi e del domani. Un monumento… Perfetto, a suo modo. Fatta eccezione per gli occasionali contrattempi vissuti da coloro che hanno voluto cavalcarlo, per qualche minuto o un paio d’ore altrettanto meritevoli di essere ricordate.

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