L’onirica chimera che potrebbe aprire un importante capitolo della conservazione indonesiana

“Eccezionale scoperta: rintracciato in mezzo alla foresta il misterioso TI-GEL-BOAT” fu l’entusiastico annuncio di Antara, l’agenzia per le notizie del Borneo, riferendosi a una straordinaria ed impossibile creatura che nel 1975 fu tenuta brevemente presso una prigione a Tengarong, in attesa che scienziati ed accademici venissero a studiarne le caratteristiche del tutto prive di precedenti. Opportunità più unica che rara, in effetti, destinata ad essere rimandata una, due, un numero infinito di volte, finché l’animale in questione, forse per il declino della sua salute, o più ottimisticamente per un gesto altruista dei suoi carcerieri, scomparisse totalmente dai radar. Un disinteresse motivato, paradossalmente, proprio dalle “troppo” straordinarie caratteristiche menzionate nell’articolo di riferimento; in cui la strana denominazione si concretizzava in qualità di commistione anglofona di varie e disparate specie animali. Volendo indicare che l’ibrido si presentasse nella seguente maniera: “Corpo di una TIGRE, collo di un LEONE, proboscide d’ELEFANTE, orecchie di MUCCA, zampe di CAPRA, piedi da POLLO ed una barba, di nuovo, da CAPRA.” Alchimie al di fuori della ragionevole portata dell’evoluzione, a ben vedere, ma di certo non della potente immaginazione umana. Ancorché fosse possibile pensare tale descrizione come un punto d’incontro tra le due, riferito ad un qualcosa di molto più plausibile di quanto si potrebbe essere inclini ad immaginare. Tradotto in termini meno comparativi, apparirà dunque possibile che siamo qui a parlare di un quadrupede dotato di una livrea striata, zampe lunghe ma non troppo massicce, artigli o zoccoli con dita separate, orecchie tonde ed erette. Qualcosa di assolutamente conforme ad un possibile cucciolo di tapiro della Malesia (T. indicus) l’unico rappresentante vivente di tale genere nei territorio dell’intera Eurasia, con l’aggiunta di un paio di tratti non conformi: la criniera e la barba sotto il muso. Il che non sarebbe stato neanche tanto insolito da concepire, visto che stiamo parlando di una popolazione territoriale la cui contestualizzazione cronologica più recente trova collocazione maggiormente probabile attorno ai 4.000-5.000 anni dall’Era odierna. Il che avrebbe fatto di un ipotetico Tigelboat ancora vivo sottoposto a studi scientifici approfonditi, una delle scoperte scientifiche del secolo nel campo della criptozoologia. Ma il destino, talvolta, può essere crudele…

Stiamo qui effettivamente parlando, nello scenario ipotetico tratteggiato tra gli altri dal Dr. Karl Shuker, celebre criptozoologo (studioso di animali perduti) autore di numerosi libri sull’argomento, di una creatura priva di nemici naturali e dal peso di fino a 350 Kg, diffusa normalmente nella penisola malese del Sud-Est Asiatico, con una popolazione distinta presso l’isola di Sumatra. L’idea che dunque possa essere vissuta per dozzine di secoli, all’insaputa di chiunque, presso il territorio situato più ad est delle isole Sunda è uno scenario possibile soltanto per quanto concerne l’impenetrabile Kalimantan, anche detta il Borneo, le cui giungle dall’estrema biodiversità ospitano presumibilmente, ancora oggi, numerosi misteri biologici del tutto ignoti all’umanità. La remota possibilità non era stata esplorata d’altra parte per la prima volta negli anni ’70, essendo stata al centro di approfonditi ed accurati sondaggi già compiuti a partire dall’inizio del XX secolo, tanto che già nel 1909 l’ente postale del Borneo Settentrionale immetteva in circolazione un francobollo rappresentante l’auspicabile quanto desiderata creatura. Pochi potrebbero dubitare d’altro canto che tapiro malese costituisca, a suo modo, uno degli animali più riconoscibili al mondo, con la sua massa considerevole, la lunga proboscide e la colorazione nera con una vistosa “sella” di colore bianco, capace di distinguerlo dai suoi distanti cugini sudamericani. Una descrizione la quale, è importante sottolinearlo, pur essendo stata sottoposta più volte alla popolazione nativa nel corso delle ultime tre o quattro generazioni non sortì altro effetto che una scrollata di spalle, seguìta dalla candida ammissione di non aver mai visto niente di simile prima di quel momento. Ogni possibile indizio raccolto in merito alla faccenda a questo punto, inclusa l’eccezionale cattura del 1975, rimane formalmente un elemento di tipo esclusivamente aneddotico, rappresentando l’anelito di una possibilità remota, non importa quanto enfatici possano essere i sostenitori della persistente idea. Il che non ha impedito soprattutto a partire dal 2009, dopo il ritrovamento in alcune caverne degli stati di Sabah e Sarawak di denti di tapiro malese sepolti assieme a individui vissuti non più anticamente di 1.500-2.000 anni a questa parte, di un popolare movimento accademico creato attorno alle teorie di Gathorne Gathorne-Hardy, naturalista e conte di Cranbrook, che pur figurando tra gli studiosi inclini a collocare il tapiro del Borneo tra Pleistocene ed iniziale periodo dell’Olocene, è stato nelle ultime decadi il principale sostenitore di un ipotetico programma mirato a reintrodurlo artificialmente nel suo preistorico territorio. Un progetto certamente non semplice da implementare, essendo stato concepito sulla base del successo ottenuto col rinoceronte di Sumatra e Java, ma anche gli effetti benefici notoriamente ottenuti nel caso dei lupi del parco di Yellowstone, dimostratosi verso la metà del secolo scorso inaspettatamente utili a ridurre la problematica popolazione dei cervi del grande parco statunitense. E che al di là dei costi proibitivi, potrebbe presentare nell’opinione di molti problematiche non trascurabili, principalmente dovute ai cambiamenti climatici e paesaggistici intercorsi negli ultimi 2.000 anni sull’isola in questione, tali da vedere un habitat idoneo per il tapiro soprattutto nelle foreste giovani, cresciute a seguito della raccolta di legname operata dall’odierna civilizzazione umana. Con alberi ed un sostrato vegetativo destinati a ritornare ben presto eccessivamente pesanti, così da dover richiedere presumibilmente periodici interventi al fine di mantenere spazi adeguati alla sopravvivenza dei tapiri. Ma l’obiezione principale, in fin dei conti, resta un’altra: perché dare la priorità all’impresa tanto laboriosa, quando esistono altre specie molto più minacciate e prossime all’estinzione che potrebbero meglio adattarsi al Borneo contemporaneo, come il serow e la tigre?

Generando una questione discutibile che ruota, più di ogni altra cosa, attorno alla fondamentale possibilità descritta in apertura: che il tapiro della Malesia esista ancora, in piccole e nascoste popolazioni, se non addirittura esemplari sopravvissuti grazie alla durata di vita pari e superiori ai 30 anni, sotto le mendaci spoglie del Tigelboat. Una “chimera” del regno immaginifico del tipo che potrebbe aver ispirato innumerevoli leggende attraverso i secoli, inclusa quella del mostro tradizionale giapponese Baku (獏) menzionato in trattati e testimonianze letterarie di epoca Muromachi (XIV-XV sec.) Un’apparizione notturna incline a risucchiare con la lunga proboscide tutti i sogni e i desideri delle persone. Non sempre o necessariamente malevola. Così come potrebbe essere descritto il notoriamente aggressivo ed iper-territoriale Tapirus indicus, un terrore per gli esploratori improvvisati di portata comparabile a quello dell’ippopotamo africano. Come potrebbero testimoniare le diverse vittime, attraverso le passate decadi, del suo morso particolarmente feroce. Il che avrebbe reso, incidentalmente, ancor più difficile dimenticarne la presenza, ad opera di coloro che avrebbero dovuto essere abbastanza “fortunati” da condividerne il territorio.

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