Il gufo alato in una posa che ricorda vagamente l’ornamento delle Rolls Royce, pronto al decollo? Un gatto selvatico ricoperto di propaggini piumate e corna draconiche, la coda rivolta speranzosamente verso il cielo? La maschera pregevole degli antenati, dal profilo che ricorda vagamente, per ragioni non del tutto chiare, il T-47 Snow Speeder del secondo film della serie Star Wars… Quasi come se il sovvertimento dei modelli di partenza fosse stato posto sullo sfondo, rispetto all’occorrenza di portare innanzi un preponderante Significato!
Ineffabile, sfuggente può riuscire ad essere lo spirito fondamentale del mondo. La dinamica realizzazione di quel gesto, che si trova al vertice del triangolo tra l’Uomo, l’Universo, la Natura. Catturato in una forma di cristallo che è la minima struttura delle cose esistenti. Il modulo creato e ri-creato, per interminabili minuti di una progressione temporale: un atomo, all’interno dell’implicito contesto. Oppur l’iterativa coincidenza, parte di un sistema speculare, che le mani creano traferendo in forma fisica gli oggetti del pensiero. Immobili, incrollabili, idealmente senza tempo. Questo è o dovrebbe essere, fondamentalmente, una statua. E nondimeno può riuscire a realizzarsi, quando il tipo di scultura che prendiamo in considerazione è realizzata con i più famosi mattoncini creativi al mondo. Lego dagli indissolubili legami, vicendevoli e allo stesso modo, capaci di protendersi fino alla mano di colui o coloro che ne percepiscono il potente fluido mitocondriale. Nimako, Ekow Nimako è l’uomo che dimostra orgogliosamente la sua discendenza ghanese. Ogni qual volta, giorno dopo giorno, assembla le sue opere all’interno di uno studio nel quartiere Scarborough, di Toronto, Ontario. Ed è avvezzo a farlo mantenendo al centro dell’esplicita faccenda una priorità cromatica importante: l’assoluto, lucido e indiviso colore della mezzanotte. Nero il cuore e nero il suo messaggio, nell’ottenimento di un potente risultato comunicativo, ma anche la realizzazione in senso post-moderno di un supremo ideale di eleganza fuori da qualsiasi tipo di dialogo politico inerente. Se non quello, indubbiamente meritevole d’encomio, che può essere un’esortazione a ritrovare le proprie perdute radici. Anche e soprattutto per il tipo di soggetti che ama rappresentare, con la realizzazione di pezzi a grandezza naturale e perciò dall’imponenza quasi monumentale, soprattutto quando si considera le inevitabili limitazioni di quei mattoncini in acrilonitrile butadiene stirene, da lui trasformati e implementati con perizia tale da riuscire a trasformarsi in coda, occhi, artigli e membra delle creature più fantastiche che si possa riuscire ad immaginare. Esseri talvolta mitologici, certe altre inventati o reinterpretati, ma sempre strettamente interconnessi al ricco corpus narrativo del folklore subsahariano. Un mondo formalmente inesplorato dal senso comune contemporaneo, ma che fluttuando fuori dai confini, lievemente può permeare ogni espressione creativa dei nostri giorni…
Nato a Montreal nel 1979 da genitori immigrati da Oltreoceano e successivamente al loro divorzio, trasferitosi con la madre a London, Ontario, Ekow Nimako narra con trasporto in molteplici interviste d’essere cresciuto in un ambiente in cui il razzismo, pur non essendo preponderante, sussisteva in modo inalienabile nell’esperienza dei giovani dalla pelle scura. Una sofferenza tristemente nota in molteplici luoghi del mondo, da lui combattuta fin da ragazzino tramite l’impiego di forme d’intrattenimento solitarie, come i cartoni animati e le onnipresenti costruzioni dei celebri mattoncini danesi. Nell’utilizzo dei quali, coltivando il proprio senso del racconto, riusciva a intravedere un mondo di sua concezione in cui persone di etnie diverse potevano essere, per una volta, al centro d’infinite storie ed altrettanto fantastiche avventure. Finché successivamente, studiando arte all’Università di York, non ebbe accesso alla codifica formale delle proprie aspirazioni, così da giungere gradualmente alla conclusione che i suoi sogni di bambino potevano riuscire a realizzarsi, mediante la creazione di un nuovo tipo di codifica espressiva, totalmente scevra di imposizioni ereditate dal contesto. E fu così che, dopo aver intrapreso inizi di carriere sfortunate nel campo della scrittura e la musica, l’autore trovò modo e fondamento per riuscire a dedicarsi a tempo pieno alla sua vera passione.
Costruire con il Lego e farlo in modo altamente caratteristico; nella realizzazione imprescindibile di particolari modelli di partenza. Molto spesso ispirati, in maniera vagamente palese, a figure folkloristiche di diverse culture africane. Così le sue creature, sempre ed imprescindibilmente composte di mattoncini monocromatici e uniformi, alludono talvolta ad antiche Divinità, come il trickster Anansi collegato alla figura del ragno, da lui trasformato in una figura antropomorfa con sei braccia che ricorda vagamente le somme figure della religione Induista. Piuttosto che trarre l’ispirazione da episodi parte di una narrazione storica non troppo nota, vedi l’avventura misteriosa delle 2.000 navi malesi, possibilmente guidate dal sovrano Abu Bakr II nel 1324, con la difficile missione di attraversare l’oceano Atlantico. Da lui rese manifeste con l’opera recente Asamando, serpente marino tecnologico della lunghezza di 4,5 metri, ospitante una possibile colonia di coraggiosi esploratori di un secolo non ancora iniziato. Ciò in quanto il fondamento della poetica di Nimako, in questa e numerose altre opere, può essere considerato conforme al tema dell’Afrofuturismo (che lui preferisce definire “Futurismo Africano”) una corrente del fantastico mirata a ipotizzare società possibili in cui particolari etnie non siano più subordinate ad altre. Ma piuttosto libere, o persino dominanti nel coronamento delle proprie inimmaginabili avventure.
Dichiaratamente incline a trarre ispirazione dai grandi scultori del passato, come Michelangelo o Rodin, Nimako narra dunque di considerare i Lego come un mezzo espressivo al pari di molti altri possibili, piuttosto che il fondamento imprescindibile della propria arte. Una visione pienamente dimostrata nella maniera in cui riesce a dare forma organica a quei mattoncini scevri di un significato inerente, premurandosi di nascondere, con efficacia innegabile, la loro forma banalmente riconoscibile ed altrettanto frequentemente abusata. Il che non gli ha impedito, nel corso degli ultimi anni, di accedere al ruolo di ambasciatore di un messaggio interculturale per conto dell’azienda produttrice, che in passato aveva guardato con dichiarato e comprensibile sospetto, per l’uniforme pelle gialla (ovvero bianca) dei numerosi personaggi facenti parte del vasto catalogo di set venduti al pubblico internazionale. Così dimostrando, in maniera estremamente pregna nello scenario odierno, che un creativo può essere al centro della comunicazione mediatica ed al tempo stesso mantenere limpido il suo messaggio al centro della propria visione. Poiché l’alternativa, di subordinare la seconda alla prima, o viceversa, può soltanto costituire un modo molto lento ed indiretto di arrendersi all’andamento del flusso d’informazioni contemporaneo. Dove l’unico “nero” ammesso al vertice appartiene preferibilmente a Batman, Darth Vader o personaggi adiacenti… Un modo particolarmente facile, ed altrettanto ripetitivo, d’incapsulare il potenziale di un inesplorato reame del fantastico adiacente.