La metodologia moderna dei trasporti è la fondamentale applicazione di due campi tecnologici paralleli e distinti: la motorizzazione dei veicoli, la costruzione di strade. Spazi deputati che non siano mera terra battuta, o strisce di ghiaia percorribili, bensì uno strato resistente all’usura e il calpestio, per cui la pressione ripetuta di un carico pesante non sia altro che una mera nota a margine, di una vita utile non propriamente costellata d’interventi di manutenzione o ripristino della superficie usurata. Il che significa in parole povere che il manto ruvido da noi percorso, quella grigia superficie appiattita, non è altro che la superficie dell’iceberg, parte visibile di un sandwich costituito da cielo, terra e bitume. Costruito per ironica evidenza, proprio dagli scarti di lavorazione di quel tipo di carburante fossile, il greggio, che spinge la in una forma oppur l’altra il maggior numero dei motori contemporanei. E se ci fosse una diversa maniera? Volendo prendere in analisi l’intero novero delle alternative nell’industria globalizzata, tutt’ora esistono dei luoghi dove la principale produzione, in termini di tonnellate oggetto di processazione nelle fabbriche, può essere di una diversa natura. Sto parlando del Kerala nella “punta” meridionale dell’India, dove ogni anno vengono prodotte ed in parte esportate circa 5921 milioni di noci di cocco, pari al 15% dell’intero GDP agricolo dello stato. Una fortuna in termini economici e di alimentazione, senza ombra di dubbio, ma anche la fonte di migliaia di tonnellate di dure scorze di scarto ogni giorno, fonte di un inquinamento solido per quanto biodegradabile, che tende a richiedere ampi spazi di stoccaggio ai margini delle zone dedicate alla processazione del loro commestibile contenuto. Qui potrebbe anche finire la nostra storia, se la cultura popolare dell’India non si fosse dimostrata, nel corso delle ultime decadi, una base solida per l’implementazione di numerose valide iniziative di riciclo, non del tipo creativo bensì integrato in effettive filiere utili in diverse maniere alla società civile. Ed è pensando certamente ad una simile missione, che a partire dal remoto 1953 il governo di questo paese ha previsto l’istituzione di un ministero, detto “del coir” dal nome internazionale delle fibre tessili ricavate da tale materiale, dedicato alla gestione tra le altre cose di un tipo d’industria collaterale ma non per questo meno produttiva in termini di metri quadri ricoperti. Da un tipo di manto versatile che potremmo accomunare in linea di principio all’aspetto pratico di uno zerbino gigante…
I video dimostrativi pubblicati online, talvolta con il patrocinio dello stesso ente governativo dedicato, cominciano tutti a grandi linee nella stessa maniera. Con maestranze consumate, quasi artigianali nell’impostazione pratica, che afferrando l’uno dopo l’altro i segmenti di bucce del frutto di alberi principalmente appartenenti alla specie Cocos nucifera o il resto della famiglia delle Arecacee, ne separano la parte legnosa dal groviglio di filamenti presenti sulla superficie, grazie all’impatto ripetuto e strategico in corrispondenza della punta di appositi rostri acuminati. Al che fa seguito la raccolta e compattazione tramite trattori agricoli di balle trasportabili, da inviare presso lo stadio successivo della produzione in appositi stabilimenti costruiti allo scopo. Qui, attentamente lavato e fatto transitare in scanalature di attorcigliamento, il cumulo di fili viene torto con l’aiuto di fusi non del tutto dissimili da quelli utilizzati nell’industria tessile contemporanea. Per poi unirli l’uno all’altro in rigide corde, da inserire in efficienti telai automatizzati, nella creazione di quelli che vengono chiamati in gergo dei “tappeti geotessili”, il cui impiego può essere eccezionalmente vario ma non meno utile di quanto potrebbe sembrare. Il coir, che tanto spesso abbiamo utilizzato per asciugare le nostre scarpe prima di varcare l’uscio di casa, costituisce in effetti un tipo di sostanza straordinariamente resistente alla marcescenza o disgregazione per fattori ambientali esterni, tanto che storicamente le corde nautiche realizzate con esso avevano una vita utile di fino a 10 anni. Sepolti sottoterra, simili riquadri possono combattere l’erosione grazie all’elevata capacità assorbente, permettendo nel contempo l’aerazione del suolo al punto tale da favorire il rapido ritorno della vegetazione pre-esistente. Ma soprattutto e per tornare al principale pretesto della qui presente trattazione, offrire un letto solido, del tutto incomprimibile, sopra cui procedere alla colata dell’asfalto stradale. Previa disposizione incernierata e puntellamento equidistante nel suolo stesso, così da assolvere quella funzione stabilizzante che nelle ancestrali strade antico-romane prendeva il nome di statumen e/o gremium.
Non che manchino gli esperimenti, principalmente condotti nel corso di questi ultimi anni, finalizzati alla mescolatura chimica del bitume stesso con fibre di cocco in quantità massima di appena 1.50-1,75% del peso totale, così da ispessire e stabilizzare ulteriormente la complessiva consistenza di tale composto quasi onnipresente nell’impronta topografica della modernità. Il che parrebbe quasi costituire una contraddizione in termini; poiché la logica di usare il frutto d’alberi al posto del carburante fossile dovrebbe avere un significato principalmente ecologico, giusto? Anche, ma non solo. A volte ricorrere al metodo automatico può condurre verso un grado più elevato di efficienza…
Ricavati principalmente dal tipo di fibra di cocco di color marrone scuro, corrispondente al prodotto fatto maturare più a lungo e per questo caratterizzata da un più alto grado di resistenza, i tappeti geotessili dello stato del Kerala sono ad oggi un’esportazione particolarmente valida ma trovano principale applicazione localmente. Questo per il clima di una regione tropicale dove l’elevata resistenza al calore e l’umidità di un simile sostrato batte, in molte circostanze, quelle che caratterizzano gli approcci costruttivi di natura maggiormente “convenzionale”. Al punto che non sarebbe del tutto irragionevole ipotizzare la creazione di un processo costruttivo endemico e vernacolare per le infrastrutture stradali soltanto successivamente alla standardizzazione del qui mostrato sistema, in contrapposizione alle alternative internazionali mai del tutto valide nel contesto eminente. E poi, vuoi mettere… In un’ipotetico domani in cui le automobili dovessero adottare su larga scala il biodiesel o riutilizzare desueti come il gassificatore ligneo dell’epoca della seconda guerra mondiale, potremmo muoverci di nuovo verso una concordata provenienza di materiali e combustibile impiegati al tempo stesso sopra/sotto la sottile membrana del manto stradale. Ma frutto di palme vive degne di essere conservate, per questa volta, piuttosto che strati liquefatti e prossimi all’esaurimento di foreste ormai perdute dal tempo. I nostri polmoni, se non altro, ci ringrazieranno?