La strategia del prato che scompare sottoterra dopo le partite del Real Madrid

Mentre gli ultimi echi della folla ancora stavano svanendo negli spazi cavernosi dell’arena imponente, già un’attività frenetica aveva cominciato a prender piede. Quasi un centinaio di addetti ecologici, accompagnati dai supervisori per la sicurezza e gli incaricati alla manutenzione dei sedili non tornati in posizione verticale, si aggiravano copiosi per gli spalti. E giù, la sotto dove il rito aveva avuto modo di compiersi, persone rimuovevano le bandierine una ad una, controllavano gli spazi ed eliminavano i pochi, ma purtroppo inevitabili detriti. Nessun giardiniere, d’altra parte, figurava tra le loro file. La ragione fu presto detta, nel momento in cui iniziò a suonare la roboante sirena. Lentamente, come la foresta Shakespeariana del Macbeth, i milioni di fili d’erba di una striscia cominciarono a marciare verso la linea laterale del campo. Per poi discendere, in maniera silenziosa, tra le ombre sottostanti il quadrangolo consacrato dalla partita. Senza neppure il tempo di dar senso a questa immagine dalle arcane geometrie, la sua gemella parallela cominciò a fare lo stesso. In poche ore, tutto quello che sarebbe rimasto qui era una superficie metallica attraversata da binari. E silenzio.
Costruiscilo e verranno ma edificare fondamenta, erigere pareti e collocare un tetto non è semplice. Neppure, nella maggior parte delle circostanze, economico. Lo sapevano la gente e gli ingegneri di Madrid e lo sapeva particolarmente bene Santiago Bernabéu, l’ex-calciatore che dal 1926 costituì per 34 anni il presidente ed amministratore della squadra cittadina. Che nella seconda metà degli anni ’40, tracciando un importante sentiero dell’intrattenimento cittadino, fu tra i primi ad affrontare un imprevisto ma potenzialmente remunerativo problema: la passione crescente dei suoi connazionali per il calcio e la maniera in cui lo storico Campo de Chamartín nell’omonimo quartiere della capitale, pur dopo i lavori fatti per aumentare i suoi posti a sedere fino a 25.000, non sarebbe più bastato a contenere il numero di spettatori fermamente intenzionati ad essere una parte significativa delle innumerevoli partite a venire. Nacque in questo modo, nella posizione estremamente centrale che occupa tutt’ora, lo Estadio Real Madrid Club de Fútbol, destinato ad essere ribattezzato nel 1955 con il stesso nome, all’epoca una delle strutture più capienti e moderne al mondo. Ma ogni cosa è sottoposta a dei continui processi di mutamento o quanto meno dovrebbe continuare ad esserlo se vuole mantenere il proprio stato dell’arte. Così per la prima volta in occasione della Coppa del Mondo nel 1982, poi 10 anni dopo e ancora nel 2001 e 2011, la storica struttura venne ampliata, rinforzata, impreziosita da migliori tabelloni, amenità e servizi. Interventi dal costo e la portata progressivamente maggiori, eppure per niente paragonabili all’abnorme trafila intrapresa più recentemente dal 2019 al 2024, con il supporto degli studi architettonici L35, GMP e Ribas & Ribas. Da cui lo stadio è riemerso circondato da un’involucro esterno in metallo, capace di isolarlo termicamente ma anche donargli un aspetto paragonabile a quello di una gigantesca astronave, o nei termini maggiormente prosaici dei suoi detrattori, richiamando un aspirapolvere Roomba e/o stampante-scanner rimasta accidentalmente priva del suo coperchio. Ma nessuno avrebbe mai potuto criticare, nonostante il costo, gli eccezionali meriti e il valore della sua incredibile tecnologia “nascosta”…

Quando si raggiunge, tra ritardi e perfezionamenti vari, la cifra d’investimento grosso modo corrispondente ad un milione di euro, diviene importante giustificare di fronte agli investitori principali (tra cui figura preponderante, va pur sempre sottolineato, la città stessa) le potenzialità di ritorno d’investimento di uno dei più importanti progetti europei del primo quarto di questo secolo nella storia non sempre prevedibile dello sport. E per quanto sia possibile sollevare dubbi persistenti sui tempi di rientro nei costi essendo passati da 74.000 a 80.000 posti a sedere, molto più difficile sarebbe negare il vantaggio di poter organizzare nello stadio fino a due eventi la settimana, piuttosto che distribuirli come normalmente fatto tra i 10 e 15 giorni. O anche più di questi, qualora una paio fossero del tipo potenzialmente ancor più redditizio del concerto di un’importante figura del mondo della musica, come quello di Taylor Swift svoltosi nell’arena riammodernata giustappunto lo scorso maggio. Si tratta del superamento di una problematica particolarmente conosciuta dalle dozzine di arene statunitense dedicate al football NFL, dove una buona parte del reddito è fornito da tale tipologia di esibizioni per così dire “collaterali”. Pur dovendo ogni singola volta ripristinare in buona parte, se non sostituire integralmente il prato utilizzato per le partite. Dal che l’idea, già utilizzata in diversi campi di quel paese, di far scorrere letteralmente il prato da una parte, ponendolo al sicuro in uno spazio fuori dagli spalti destinati ad essere altrettanto gremiti. Soluzione chiaramente impossibile da adottare, in una collocazione centrale circondata da strade ed edifici come quella del Santiago Bernabeu. Ed è qui che entra in gioco (!) la compagnia ingegneristica Ayesa, con la prima implementazione pratica di un suo approccio alla questione, tradizionalista e rivoluzionario allo stesso tempo. Chiamato per l’appunto “ipogeo” termine etimologicamente derivato dal greco, pur essendo tipicamente utilizzato nel mondo latino e per essere specifici al fine di riferirsi agli spazi sotterranei utilizzati, come in un teatro, per nascondere i partecipanti e trucchi scenici all’interno del Colosseo. In che modo, è presto detto: il prato o pitch del campo, procedendo all’implementazione, è stato effettivamente suddiviso trasversalmente in sei segmenti lunghi 105 e larghi 11,6 metri. Ciascuno dei quali posizionati sopra un vassoio dal peso approssimativo di 1.500 tonnellate, capace di essere movimentato grazie ad appositi canali di spostamento fino ad un segmento apribile nella parte ovest del campo. Dove potenti braccia sollevatrici, estendendosi fino ai perni, si occuperanno di portare il prezioso tesoro vegetativo nella propria invisibile cassaforte. Al sicuro, potenzialmente, per l’eternità…

Siamo qui di fronte, in effetti, all’assoluto perfezionamento del mantenere un prato immacolato e lontano da possibili agenti contaminanti, come afflizioni vegetali capaci di comprometterne la giocabilità inerente. Per la maniera in cui lo spazio sotterraneo dello stadio, attentamente incuneato tra gli impianti urbani e addirittura un tunnel della metropolitana, permette di coltivare i sei vassoi erbosi sotto la luce ultravioletta artificiale e tra avanzati impianti di fertirrigazione, capaci di mantenere il livello di umidità e nutrimento necessari a garantire la prosperità erbacea di maggior pregio. Ponendo le basi di un’efficienza ed attenzione ai dettagli del giardinaggio persino superiore a quella degli stadi utilizzati con frequenza esponenzialmente minore.
Un vero campo da calcio aderente ai più elevati principi di funzionamento altro non è, d’altronde, che il perfetto incontro tra uomo e natura. Poiché la seconda, se lasciata ai propri mezzi, raramente può produrre un manto percorribile del tutto privo di “difetti” evidenti. Laddove in quell’immenso laboratorio sotterraneo, tutto diventa possibile. A patto di controllare accuratamente, ogni qual volta si ricompone l’omnibus sotto la luce dello splendente astro diurno, che i dischetti dei rigori siano accuratamente allineati tra i loro quattro vassoi. Il rischio di insulti da parte del pubblico frustrato, rivolti ai giardinieri piuttosto che l’arbitro, è in effetti piuttosto raro. Ma MAI, pari a zero.

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