Ci sono alcuni video, su Internet, capaci di suscitare uno spontaneo senso di curiosità e straniamento. Un po’ come quello del misterioso Desertlife hanamono, letteralmente “Pianta da fiori, Vita nel deserto”, youtuber che scrive in giapponese ma abita, per qualche ragione, tra il territorio della Libia e del Marocco. Dove lo vediamo muoversi agilmente, inseguito dal suo fedele piccione ammaestrato (?) alla ricerca di… Qualcosa. Finché al quinto minuto immerge le sue mani sulla cengia di un’alta duna. Per estrarre con evidente e partecipativo orgoglio, il “pescato”.
I pesci son ovunque dentro il vasto mare e qualche volta, anche al di fuori di esso, avendo nuotato tanto a lungo e in modo così enfatico, da essersi lasciati alle spalle ogni limite inerente di pertinenza abitativa. Alcuni serpeggianti appartenenti ad una tale insieme di creature poi, sembrano essersi lasciati indietro tipiche caratteristiche come pinne, branchie o code dal caratteristico impennaggio verticale. Forse obsolete, residui di un tempo eccessivamente lontano. Fuori il vecchio, dentro il nuovo, come si usa dire! E cosa c’è di maggiormente rivoluzionario a questo mondo, che il maggior deserto nordafricano? Il quale per centinaia di migliaia d’anni ha visto il proprio clima progredire più volte da distesa sabbiosa ad umida savana e poi, in un ciclo incessante, ritornare a quello che era in precedenza. Il tipo di circostanze, instabili oltre un periodo di soli 20.000 anni, capaci di far deragliare il treno prevedibile dell’evoluzione… Altrove, ma non QUI. E certamente non per quanto concerne lo scinco comune (S. scincus) animale la cui forma cilindrica tradisce una funzione adatta ad insinuarsi oltre gli strati di un immenso fluido latente. Pur essendo situato, per propria predisposizione intrinseca, a migliaia di chilometri dalla benché minima propaggine marina. Ma il movimento sinusoidale da un punto a un altro, come potrebbero affermare i serpenti, è ben più che un elettivo stile di vita. Bensì la soluzione obbligata, al tipico e diffuso problema di ottimizzare i parametri di spostamento, conservare energia, raggiungere una meta con approccio sufficientemente furtivo. Il che appare altrettanto vero nel caso di questo intrigante sauro non più lungo di 9-10 cm, la cui testa e coda si assomigliano particolarmente da vicino. Ed il cui muso lievemente convesso pare concepito, in modo particolarmente efficiente, al fine di agire come una vanga sulla matrice dorata delle particelle di silicati. Aprendo un pratico passaggio per quel corpo piccolo ma ben rodato, che immancabilmente si affretterà ad insinuarsi…
Questa lucertola squamata, formalmente parte di un genere composto da quattro specie piuttosto simili tra loro, non a rischio d’estinzione e distribuite tra Africa settentrionale e penisola Arabica, rappresenta dunque la perfetta dimostrazione di quanto possa rivelarsi esperta progettista la natura. Anche avendo, come dicevamo, un tempo relativamente corto a disposizione. Carnivora obbligata, per la palese assenza di abbondante vegetazione adatta al consumo nei confini del suo vasto territorio, essa agisce e caccia le proprie prede in maniera soavemente simile a quella di Shai-Hulud, il fantastico ed immenso verme delle sabbie del pianeta Dune. Ovvero non mediante la vista, e neppure l’olfatto, bensì percependo vibrazioni ad una distanza massima di 15 cm, grazie a speciali strutture situate all’interno del proprio padiglione auricolare. Potendo addirittura, durante il movimento, filtrare i 4 hz prodotti dal proprio regolare incedere, a una profondità media di 3-4 cm al di sotto della superficie battuta dai potenti raggi del sole. Il che contribuisce a fornirgli due vantaggi di tipo passivo: la termoregolazione dal calore potenzialmente eccessivo delle proprie inospitali latitudini, nonché l’opportunità di restare nascosta dai propri nemici, che pur in assenza di studi specifici sembrerebbero includere la vipera cornuta del deserto (C. cerastes) e potenzialmente l’otarda (Ardeotis spp.) e l’avvoltoio barbuto (Gypaetus b.) Dando luogo, coerentemente a tale stile d’evasione, all’opportunità di cogliere del tutto impreparati grilli, vermi e l’occasionale scarabeo di passaggio. Laddove soprattutto in cattività, uno dei cibi preferiti da tanto eccelse e specializzate creature sembrerebbe essere il dubia o blatta della guyana, che consumano con evidente voracità e trasporto. Tra fenotipi di maggior rilievo è dunque degno di menzione la perfetta lucidità della pelle scagliosa posseduta dallo scinco, le cui scaglie sono tanto lisce ed aderenti da impedire il benché minimo logoramento da attrito, non importa quanti chilometri essa percorra sottoterra, continuando a sfidare la sottile sabbia del deserto. Potendo contare in tal frangente, per la respirazione, sulla capacità di catturare l’ossigeno dalle strettissime intercapedini tra i granuli, non potendo evitare che una significativa percentuale di essi penetri nelle proprie narici e da lì, giù verso l’esofago e nello stomaco stesso dell’animale. Che tuttavia sembrerebbe, ancora una volta grazie ad adattamenti specifici ereditati dai suoi predecessori, del tutto in grado di smaltirli assieme al cibo senza che tale inalazione abbia effetti negativi di qualsivoglia tipo. Capaci di vivere in cattività per periodi di fino a 10 anni, gli scinchi comuni adottano un sistema riproduttivo largamente ignoto, che presumibilmente vede i membri della specie formare coppie monogame nella stagione delle rare piogge (maggio-giugno). Dopo un opportuno periodo di nutrizione finalizzato all’accumulo delle forze, il maschio procederà quindi alla fecondazione, da cui avrà seguito la nascita di un embrione trasportato dalla femmina fino al momento del pieno sviluppo. Dando luogo, in tal senso, ad un tipo di riproduzione vivipara, sorprendentemente simile a quella dei mammiferi euteri.
Diverso da un geco eppure tanto simile per predisposizioni alimentari, comportamento e metodi di movimento superficiale, il “pesce delle sabbie” acquisisce diritto al proprio soprannome nel momento in cui, lasciato a se stesso, decide di tornare al sicuro. Con un’immersione non più lunga di un singolo secondo, tempo necessario a scomparire totalmente dalla sguardo di occhi indiscreti. Per poi procedere oscillando da una parte all’altra, mentre si aiuta e stabilizza con le corte zampe; non raccolte parallelamente al corpo affusolato, come si riteneva in origine, bensì agitate ritmicamente in modo analogo a quanto fatto da un atleta olimpico in gara. Lo hanno scoperto scienziati dell’Istituto di Fisica dell’Università della Georgia, ponendone alcuni esemplari all’interno di recipiente sabbioso sotto la macchina per i raggi X. Forse il più aggressivo metodo di osservazione immaginabile. Ma sarebbe stato difficile, viste le circostanze in essere, immaginarne uno altrettanto efficace