La cultura rende liberi, permettendo alla mente di allontanarsi e trasportare i pensieri oltre i limiti delle convenzioni controllate da fuori. Forse proprio per questo nella penultima decade del Novecento, i moti rivoluzionari di protesta contro l’organizzazione civile sovranazionale del Regno di Jugoslavia ebbero inizio, in Kosovo come altrove, all’interno delle Università. Almeno a Pristina tuttavia, la capitale, già dal 1982 era stato completato un edificio che sembrava contraddire per lo meno la parte estetica di tale affermazione, dopo un lungo periodo di progettazione ed implementazione durato più di 10 anni. Per certi versi la versione tangibile di quell’ideale di un’estetica identitaria destinata a modellarsi sui desideri e le aspirazioni di un popolo profondamente disunito, da molti altri una visione avanguardista uscita dritta dalle pagine di un libro di fantascienza, la Biblioteka Kombëtare o Biblioteca Nazionale si erge ancora oggi in uno dei principali spazi verdi urbani, stabilendo un dialogo tra l’artista degli spazi abitabili ed i loro utilizzatori che determina, da numerosi punti di vista, persistenti conflitti interpretativi. Quanto spesso capita nel novero degli edifici contemporanei, d’altronde, di trovarsi innanzi a una facciata totalmente ricoperta da una struttura reticolare che assomiglia vagamente ad una gabbia di Faraday o per descriverla più prosaicamente, la recinzione esterna di un carcere in grigio cemento? Si narra a tal proposito come durante la costruzione dell’edificio, molti avessero pensato che l’involucro di metallo costituisse in effetti una forma di impalcatura temporanea, per poi restare senza parole quando, al suo completamento, venne lasciato così com’era. Niente al confronto se paragonato alla reazione ostile da parte degli ufficiali del nuovo governo socialista fondato nel 1997 nei confronti dell’architetto di larga fama Andrija Mutnjaković. Lui, nato nel 1929 ed abile utilizzatore del modulo parametrico, che aveva sempre tentato di tenersi fuori dalle dispute politiche lavorando principalmente nel puro regno della ragion pura. E che all’improvviso si ritrovava accusato di aver voluto evocare il cappello simbolo della cultura albanese, chiamato plis, con la forma bianca e tondeggiante della quantità impressionante di cupole al di sopra della sua creazione! Il cui aspetto bizzarro se visto dall’esterno faceva in realtà capo a un’esigenza di creare spazi di lettura illuminati naturalmente, ipotesi a tal punto ben realizzata che per anni la biblioteca non sarebbe stata dotata di un sistema d’illuminazione adeguato ad operare negli orari notturni. Non che ciò avrebbe avuto particolare importanza, per gli anni difficili ed il sanguinoso conflitto destinato a palesarsi soltanto pochi anni dopo la sua “gloriosa” inaugurazione…
Esplorata con la massima cautela dagli addetti alla bonifica urbana dopo il conflitto del 1998-99, essendo stata utilizzata come centro per rifugiati prima e successivamente in qualità di base operativa per le forze speciali, le solide mura della biblioteca sarebbero state trovate sorprendentemente integre nonostante i bombardamenti subiti. E sebbene molti libri, percepiti come inadeguati dal regime, fossero stati bruciati o riciclati nella vicina cartiera, il restauro e riapertura vennero giudicati possibili, ed implementati soltanto nel giro di pochi mesi. Un’opportunità importante ed un segnale di rinascita, anche considerato il fondamentale messaggio sincretistico veicolato dal creatore, che nel profilo dell’edificio aveva voluto evocare le forme dell’architettura islamica e bizantina, con un particolare riferimento estetico alle cupole degli Hamman di Prizren, in Albania. Da lui tradotte ed adattate, tuttavia, in un sistema per definire gli spazi al di sopra di cubi e parallelepipedi ripetuti, mediante l’applicazione di un sistema matematico elaborato attraverso l’uso del computer. Tecnica d’avanguardia all’epoca, che in effetti eleva la Biblioteca de semplice edificio brutalista ad un’espressione anticipata di quello che sarebbe diventato in seguito il metabolismo post-moderno, con tanto di forme fluide ed interconnesse negli spazi interni che non sfigurerebbero in uno dei primi progetti di Zaha Hadid. Molto interessante anche il decoro e le rifiniture, che includono un parquet per la sala centrale, posto sotto una delle cupole più grandi ed una serie di spirali metalliche affisse al parapetto del mezzanino, in cui il susseguirsi di tasselli policromi ricorda la disposizione di una roulette da casinò o immaginifico pianoforte circolare. Mentre la scala per permette di accedere ai piani superiori vede immagini naturalistiche ritratte in un mosaico a parete, volutamente astratto e pixellato in maniera analoga a quella mostrata dai pochi altri edifici che hanno superato la fase di progettazione sulla base degli stessi presupposti autorali. Ma gli spazi memorabili si moltiplicano per ogni sala di lettura, ciascuno spazio adibito al silenzio, spesso dotati di mobilia realizzata ad hoc da importanti nomi dell’interior design kosovaro.
Criticato praticamente da subito in patria, forse ancor più di quanto avesse suscitato un’ondata d’interesse da parte degli esponenti del settore su scala internazionale, la nuova biblioteca si sarebbe a posteriori dimostrata l’edificio più celebre del Rinascimento architettonico dell’area politica ex-jugoslava, nonché uno degli ultimi ad essere realizzati senza la necessità di aderire a specifiche linee guida procedurali, imposte dalla visione sobria ed utilitaristica inerentemente collegata alle regole del socialismo di un severo regime. Per non parlare della critica teoricamente ragionevole del senso comune contemporaneo, che l’ha vista includere più volte nel novero ostile, soggettivo e superficiale degli edifici più brutti del mondo.
Oggi più che novantaquattrenne ma ancora in salute, nonché iscritto all’associazione degli architetti del suo paese, Mutnjaković resta celebre per alcune notevoli citazioni. Tra cui la maggiormente pregna, in quest’epoca giustamente (e tardivamente) preoccupata dall’intelligenza artificiale, potrebbe essere: “Guidiamo automobili che sono delle macchine, navighiamo in navi-macchine, andiamo sotto il mare in sottomarini-macchine, voliamo in aerei-macchine e viviamo in case-macchine. E questo e tutto. La vita non potrà mai diventare, in alcun modo, inumana.” Sebbene sia difficile trovare l’opportunità di raffrontarsi intimamente con la struttura tecnologica di un quasi-carcere destinato alla parola stampata, essa esiste. Permettendo di proiettare a coloro che osano provarci, ancora una volta ed oltre l’ennesima siepe, lo strumento multiforme della pura immaginazione.