L’astuta ranatra dei boschi messicani, che gracida dal becco di un coccodrillo baritonale

I nomi comuni degli animali, come le loro alternative in lingua latina e greca, presentano frequentemente gradi di similitudine in funzione dei tratti condivisi da specie distinte. Soltanto che in tal caso, piuttosto che fenotipi si parla spesso di concetti, tratti distintivi riassumibili da vocaboli come “strano”, “diverso” o “singolare”. Chiunque frequenti assiduamente le pagine per amanti della biologia su Internet, ad esempio, avrà probabilmente familiarità con la celebre rana palla, che occupa pazientemente buche nel sostrato sudafricano in attesa delle stagioni umide occorrenti. O la rana pollo, delle isole caraibiche di Dominica e Montserrat, così chiamata per il sapore che caratterizza le sue carni, almeno in apparenza simile a quello del più diffuso uccello da fattoria. Ultimo capitolo di tale odissea onomastica, dunque, può essere individuato nel batrace che molti conoscono come la rana pala, causa la forma triangolare del suo casco cranico, in tutto e per tutto simile al versatile attrezzo usato per scavare o come arma da trincea nel corso di entrambe le guerre mondiali. Per lo meno all’interno di un certo numero di contesti nazionali, laddove nel suo Messico d’origine, questa Triprion spatulatus resta prevalentemente nota per il suo pico de pato, il “becco d’anatra” posizionato per l’appunto strategicamente, ai vertici di un’ideale geometria posizionata tra gli occhi e la capiente sacca di risonanza del sottogola. Una creatura al tempo stesso per lo più conforme alla definizione di un anfibio in zone non particolarmente umide, essendo il suo bioma situato principalmente nella parte meridionale del paese e ai margini dell’America Centrale identificabile come la foresta xerica di latifoglie decidue, dove lunghe stagioni calde vedono ripetersi, anno dopo anno, persistenti periodi di siccità. Il che costituisce d’altro canto la fondamentale chiave di volta interpretativa dell’intera configurazione di questi animali, non più lunghi di 101 mm nel caso delle femmine, ed 87 per quanto concerne i maschi. La cui collaudata strategia di sopravvivenza include, nei periodi non riproduttivi, la capacità di arrampicarsi fino al cavo dei tronchi o tra i densi cespugli di bromeliacee, ritrovando spazi angusti ove trascorrere le ore calde, in attesa di attaccare nuovamente all’alba ed il tramonto l’eterogenea popolazione degli insetti locali. Uno stile di vita che tende a richiedere la capacità strategica di difendere, contro eventuali predatori, l’ingresso di tali pertugi, prima tra le spiegazioni possibili della forma della loro testa, comune in modo apprezzabile anche alle altre due specie del genere Triprion, la petastatus dello Yucatan e la spinosus, o hylia incoronata dell’areale sudamericano. Il che costituisce a dire il vero soltanto la prima spiegazione possibile, per un animale non molto studiato che custodisce ostinatamente il suo principale mistero…

Per parlare a questo punto brevemente dello stato di conservazione, la rana pala è ad oggi una specie piuttosto diffusa ove presente, essendo riuscita a mantenere la qualifica di rischio assente nel pericoloso indice della lista rossa, relativo alle specie minacciate dalla spada impietosa dell’estinzione. E benché sia possibile ipotizzare, come praticamente per qualsiasi altra tipologia di creatura dipendente da particolari habitat, una riduzione della popolazione in forza della riduzione del loro ambiente, l’identificabile richiamo che suona come un singolo e ripetuto braa dall’intonazione piuttosto bassa viene sperimentato alquanto frequentemente dagli abitanti della zona situata ad altitudini di fino a 500 metri sul livello del mare, così come si scorge spesso la forma del suo corpo sopra i tronchi, il cui colore può variare nel corso della vita tra il giallo, il marrone ed il verde, possibilmente al fine di massimizzare la capacità mimetica in base agli specifici dintorni di riferimento. Notevole risulta essere, a tal proposito, la capacità arrampicatoria del piccolo essere, le cui dita delle zampe dalla forma affusolata con polpastrelli tondeggianti ricordano non troppo da lontano quelle di un tipico geco del contesto europeo (e non solo). Una somiglianza ulteriormente accentuata dalla caratteristica forma di quel muso, che li ha visti spesso scambiati per lucertole o evocativi dell’aspetto complessivo di un piccolo cane, forse una delle associazioni maggiormente imprevedibile viste le rispettive categorie concettuali di appartenenza. Il che ci riporta, compatibilmente con l’opportuno discorso sulla riproduzione, all’aspetto che costituisce il tratto distintivo fondamentale, quel becco sufficiente a distinguere la raganella dalla stragrande maggioranza dei suoi cugini e che potrebbe avere non soltanto una funzione difensiva. Costituendo al tempo stesso, nell’opinione di alcuni, un possibile tratto di selezione sessuale. Sebbene la maggioranza degli studiosi non possa fare a meno di sottolineare il modo in raramente tali fenotipi risultino condivisi tra maschi e femmine, laddove la Triprion non solo lo presenta per entrambi i sessi, ma morfologicamente distinto in modo tale da suggerire una potenziale funzione pratica: quella di amplificare il richiamo del maschio, il cui becco ha la forma concava e rivolta verso l’alto, mentre possibilmente attenuarlo per la controparte, essendo di contro convesso e puntato in direzione del terreno sottostante. Ciò fornendo indizi possibili sul comportamento riproduttivo dell’animale, in cui il genere di Marte cerca sempre di attirare l’attenzione al massimo, mentre l’ideale compagna sceglie la strategia di starsene abbastanza in disparte, attendendo il momento corretto per selezionare un degno fornitore di prezioso patrimonio genetico ereditato.

Con un amplesso prolungato che vedrà a questo punto il maschio più piccolo trasportato dalla femmina per qualche tempo sulla schiena, come avviene per altre tipologie di rane tropicali e subtropicali, la bestia titolare procederà dunque nell’individuazione di una pozza sufficientemente profonda, generalmente di natura effimera destinata a scomparire al termine della stagione. Ma non prima, salvo incidenti, che i girini fortunati abbiano avuto l’occasione di far crescere le proprie zampe, iniziando uno spostamento tattico verso pertugi periferici che esteticamente si richiama all’ideale marcia dell’evoluzione: prima quasi-pesce, quindi anfibio ed infine abitante quadrupede di ambienti ove la pioggia resta periodica e facoltativa. Contribuendo d’altra parte alla definizione di una nicchia ecologica ove soltanto anuri da caratteristiche insolite possono davvero aspirare al raggiungimento della prosperità situazionale. Come ornitorinchi delle circostanze alternative, capaci di comprendere, istintivamente, il valore di una bocca larga e piatta, qualunque possa essere il suo impiego di maggiore rilevanza nel quotidiano. E in attesa che uno studio scientifico esplicitamente dedicato alla questione, piuttosto che i molteplici cataloghi in cui viene riservato poco spazio oltre la descrizione fisica, chiariscano i misteri che ancora condizionano la comprensione della nostra singolare, affascinante amica.

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