Nel novembre del 1901, all’apice dell’estate meridionale, il barone tedesco Alexander Humboldt si trovava in Sudamerica, intento ad espletare la sua ferma convinzione a spendere la corposa fortuna ricevuta in eredità dalla madre per migliorare ed ampliare la comprensione scientifica di questo mondo. Viaggiando con l’amico e collega naturalista Aimé Bonpland, ex chirurgo dell’esercito francese, era giunto nei possedimenti coloniali d’Oltremare attraverso le Canarie e poi da lì a Cumanà, in Venezuela, mancando di poco l’ingresso nella zona colpita da una grave epidemia di tifo. Avendo già rischiato, inoltre, un piccolo naufragio alla rottura dell’albero della fregata spagnola che li aveva trasportati in quel porto, i due decisero di affrontare ulteriori e significative peripezie, inoltrandosi via terra in direzione di Cartaghena, per attraversare le Ande armati dei numerosi dispositivi che avevano con se al fine di raccogliere campioni di piante, semi, rocce e misurare la posizione delle stelle in cielo. Fino all’arduo percorso in direzione del vulcano colombiano Puracé dove il barone intendeva dimostrare il predominio di specifiche famiglie vegetali oltre i 2.000 metri d’altitudine nel contesto sudamericano. Un percorso difficile, da affrontare con il solo accompagnamento di un treno di muli e le possenti guide native, in grado di sollevare a più riprese i viaggiatori e trasportarli letteralmente a braccio, tramite l’impiego di speciali selle adattate dall’uso equino. Fu proprio in tale contingenza dunque, che per la prima volta gli studiosi europei videro con i propri occhi quello che sarebbe immediatamente diventato, all’epoca, l’albero più alto del mondo conosciuto. All’inizio del XIX secolo in effetti non erano ancora stati descritti scientificamente i colossali eucalipti australiani o le sequoie della California, ponendo le svettanti monocotiledoni del genere Ceroxylon, anche dette più semplicemente palme da cera, all’assoluto apice dei rapporti di scala degli arbusti, con i propri 40-60 metri d’elevazione da terra. Distribuiti in modo alquanto caratteristico, vista la presenza nella fase della vita adulta di un tronco totalmente scarno e privo di alcun tipo di fronda, sormontato da un singolo pennacchio a forma d’asterisco, le cui foglie lunghe e strette possono arrivare a misurare i 5 metri di lunghezza. Struttura colonnare, per di più, caratterizzata da una superficie esterna inconfondibile ove le foglie precedenti si sono staccate, lasciando segni neri orizzontali che ricoprono letteralmente l’intera progressione lignea, difesa dall’attacco dei parassiti grazie al significativo strato resinoso, in realtà più simile a una cera, che caratterizza in modo specifico questa intera categoria di piante. Con un ruolo di preminenza spettante, per chiare ragioni, alla maggiore di tutte, la C. quindiuense, capace di prosperare attivamente tra i 2.000 e i 3.100 metri d’altitudine, dove la maggior parte degli arbusti evita semplicemente di mettere le proprie radici. Traendo fonte di sostentamento, in parallelo, dal suolo nutritivo e la limitata umidità dell’aria, catturata là, dove corre incessante il vento…
Arbusto estremamente longevo, capace di vivere fino a 200 anni, la palma del Quindìo suscita da sempre uno spontaneo interrogativo nella gente di qui e non solo. Come è possibile in effetti che tale particolare specie, diffusa lungo l’intero bacino del Tochecito e fino alla valle di Cocora, porti il nome di una località situata letteralmente dall’altra parte delle Ande, dove comparativamente ne cresce una quantità molto minore? La ragione è ricercabile nel già citato viaggio di Humboldt e Bonpland, il cui passaggio verso l’entroterra si dipanò lungo un sentiero che veniva ancora definito, all’epoca, come passo del Quindìo, in base alla località situata ad uno dei capi estremi della sua progressione inerente. Da dove il mito della palma di queste regioni remote avrebbe in seguito colpito, giustamente, la fantasia del mondo accademico che non aveva ancora avuto l’opportunità di classificarla. Dotata di due sessi distinti ciascuno dei quali attribuibile ad un singolo albero, la palma cresce dunque in vaste zone pianeggianti ed assolate, attraverso un periodo estremamente lungo che permette la prima fioritura soltanto dopo il trascorrere di 40 anni. Momento in cui, iniziando a produrre sostanze chimiche capaci di attirare molte specie d’insetti, con particolare efficacia nei confronti degli scarabei ed altri coleotteri locali, gli alberi ottengono la necessaria impollinazione, cui fa seguito la produzione di corpose cascate di datteri dal colore rosso vivo ed arancione. Ove questi ultimi cadranno, i semi tenteranno di attecchire in un processo spontaneo dall’alto grado di efficienza, benché conduttivo ad una delle fasi maggiormente delicate nella vita della pianta. Essa risulterà infatti molto vulnerabile ad un eccesso di raggi ultravioletti nelle fasi iniziali, potendo realmente prosperare soltanto in zone protette come sotto un ramo caduto, in prossimità di un cespuglio o ai margini di ombrose radure. Altro pericolo, soprattutto in tempi moderni, il passaggio del bestiame ed in modo particolare dei bovini, molto avvezzi a consumare i semi, distruggere i virgulti calpestandoli o fagocitarli semplicemente tutti interi, il che ha ridotto sensibilmente il rateo di successo nella riproduzione di questa palma. Paradossalmente, con un ritmo peggiorativo incrementato proprio nel corso delle ultime decadi successive al ritiro delle FARC rivoluzionarie, che ha partire dal 1964 avevano mantenuto il controllo dell’intera regione impedendo l’arrivo degli agricoltori e grandi possessori di latifondi, destinati a ridurre sensibilmente lo spazio letteralmente incontaminato a disposizione della natura. Una situazione delicata, all’origine di molte polemiche nei confronti del governo, che potrebbe o dovrebbe proteggere questa specie endemica ma che nell’opinione di molti non compie tutti i passi necessari per farlo. Istituendo leggi severe sulla carta, le quali d’altro canto non limitano la libertà di agire indiscriminatamente all’interno dei terreni privati, giudicati d’altro canto troppo costosi perché sia possibile acquistarli a spese delle casse statali. Tutto questo mentre l’abbattimento delle palme da cera, costituite da un legno estremamente solido ed utilizzato in architettura, continua indisturbato in molti contesti, sulla base delle abitudini frutto di pregresse tradizioni locali. Giacché si diceva che la palma del Quindìo, sull’esempio della famosa fattoria di Las Cruces visitata nel 1876 da Édouard André, potesse fornire tutto il necessario a costruire una casa perfetta, utilizzando il legno per le mura, le foglie come tetto e la cera che la ricopriva al fine di fabbricare valide candele, nella maniera in cui si usava fare prima dell’invenzione dell’elettricità. Con un uso probabile, ancora più antico, da parte dei popoli nativi dei Quimbaya, che producevano manufatti d’oro mediante l’utilizzo della tecnica della cera persa, presumibilmente proprio grazie alla resina speciale di questa svettante pianta.
Nominato infine albero nazionale con decreto num. 61 del 16 settembre 1985, la maggior palma Ceroxylon si è trasformata tardivamente in uno stimato simbolo nazionale, sebbene manchi una struttura normativa finalizzata a garantirne la continuativa esistenza. E con una classificazione da parte dei maggiori indici naturali che la pone, nella migliore delle ipotesi, in uno stato di vulnerabilità pregressa costituisce ad oggi una delle molte specie in bilico dei nostri tempi. Con potenziali gravi effetti a cascata, considerando ad esempio l’importanza primaria che riveste nella costruzione del nido e conseguente ciclo riproduttivo del parrocchetto dalle orecchie gialle (Ognorhynchus icterotis) assieme a numerose altre specie senza eguali nel mondo. Lo stesso Humboldt, ritornato a Parigi assieme all’amico nel 1804 con appunti su oltre 60.000 specie vegetali ed una fama ormai imperitura, oltre ad opinioni rivoluzionarie sul campo magnetico terrestre e le ipotesi geologiche del nettunismo, ne sarebbe ad oggi profondamente rattristato. Ma gli uomini di scienza, per quanto influenti, difficilmente possono influenzare in modo particolarmente approfondito il corso inesorabile degli eventi. Altrimenti essi non avrebbero potuto elaborare, fin dall’epoca del Mondo Antico, la fondamentale teoria entropica dell’esistenza. Che ogni tronco vede abbattersi, non importa quanto grande o forte, sulla terra smossa di distese senza nome né tempo. Mentre i coleotteri vivono, muoiono e vivono ancora. Portando doverosamente a termine quel compito, per cui Madre Natura stessa li ha saputi selezionare.