Oltre mura vichinghe, il problema di un sito sacrificale nei tempi odierni

Lode agli Dei, rispetto agli Dei. Ma soprattutto, ogni qual volta se ne presentasse l’opportunità, doni e ricompense agli esseri superni che controllano il destino dell’umanità. In un mondo in cui la morte poteva sopraggiungere per una lieve infezione, la puntura di un insetto o un semplice mal di denti, la gente aveva appreso che appellarsi alla benevolenza dei Poteri aveva se non altro il merito di moderare il senso d’impellente condanna. Il brivido e la morte, che incombevano allo stesso modo sulla testa del popolo e dei suoi padroni. Così quando nel quarto secolo d.C, presso la zona meridionale della verdeggiante isola di Öland (Svezia) una mezza dozzina di abitanti dell’Età del Ferro decisero di costituire un insediamento protetto da una solida cinta muraria, sull’esempio riferito dai viaggiatori che avevano visitato il territorio dell’Impero Romano, fu soltanto naturale associarlo ad un sito dedicato alle venerazioni degli antichi Dei preistorici dell’area culturale Norrena. Qualunque essi fossero, nell’assenza di testimonianze scritte per poterne conoscere effettive caratteristiche o funzioni, ma potendo contare, tra gli altri, sul sito di Eketorp per comprendere almeno in parte cosa comportasse la loro venerazione. O per essere più precisi, l’enorme quantità di ossa equine ritrovate nell’acquitrino retrostante, presso cui presumibilmente gli abitanti portavano le proprie cavalcature ormai stanche o insufficientemente utili. Per poi procedere a dissanguarle, mangiarne le carni in un pasto rituale comunitario, infilzarne le teste sopra i pali e stenderne le pelli grazie all’uso di strutture decorative. Niente di strano, all’epoca in cui tali pratiche rientravano nel quotidiano delle popolazioni in simili condizioni abitative, ma un tipo di gestualità decisamente in grado di attirare l’attenzione collettiva nel più recente 2005, quando gli amministratori del museo oggigiorno contenuto della fortezza, credendo di fare cosa gradita, acquisirono una certa quantità di materiali residui da stabilimenti di processazione di carne di cavallo. Per approntare una fedele ricostruzione della scena teorizzata dagli archeologi, completa di teste “fresche” e crani già scarnificati, presumibilmente il risultato delle celebrazioni religiose della scorsa stagione, egualmente dedicate alla pacificazione dei misteriosi antenati di Odino. Il che apparirebbe alquanto iper-entusiastico e forse anche un po’ esagerato, se non stessimo effettivamente parlando di Eketorp, destinazione turistica dove fino a pochi anni prima del Covid era possibile incontrare il gruppo di figuranti in costume incaricati di ricostruire fedelmente la vita del forte ed ogni momento significativo della loro routine, dalle attività agricole, a quelle metallurgiche, alla preparazione del cibo e naturalmente le meramente speculative, ma indubbiamente fondamentali fasi d’aggregazione e riconferma dell’identità religiosa. Persino a rischio di apparire truculenti e fuori luogo a quella che loro stessi si apprestarono a definire una minoranza delle convinzioni piuttosto inveterate. Ed il supporto implicito, in modo piuttosto prevedibile, dell’intera macchina mediatica nazionale…

La questione diventò dunque ben presto di notevole appannaggio collettivo, mentre i principali giornali e canali televisivi svedesi dedicavano ampi spazi alla discussione sul cosiddetto “errore” commesso dalle anacronistiche genti di Eketorp, apparentemente finalizzato a sconvolgere i visitatori e far sprofondare nello sconforto i loro bambini. Laddove un resoconto post-operam pubblicato sul numero di novembre 2006 della rivista di archeologia EuroREA, redatto dagli stessi gestori dell’iniziativa, riporta proprio da parte di questi ultimi la maggior quantità di domande costruttive e interesse nei confronti dell’iniziativa oggettivamente piuttosto macabra, ancorché funzionale alla riscoperta di un qualcosa che possiamo considerare del tutto fedele all’epoca programmaticamente ricostruita. Così come, del resto, il sito della fortezza è considerato ancora oggi uno dei migliori esempi di esperienza preistorica interattiva in Europa, con la possibilità per chi varca quel corpo di guardia completamente ricostruito, sulla base dell’aspetto che doveva avere in epoca medievale, di partecipare ad uno stile di vita lungamente accantonato, con arcieria, panificazione, “esercitazioni” con spade ed archi e piccoli laboratori di arte figurativa di svariata natura. Così come totalmente approntati in epoca rigorosamente moderna ma idealmente fedeli risultano essere le longhouse di aspetto tipicamente vichingo che si trovano all’interno della cinta muraria costruita a secco, completa di merlatura, parzialmente appoggiate alle mura stesse nella maniera in cui diventò logisticamente necessario procedere a partire dall’XI secolo. Risulta importante sottolineare, a tal proposito, come la prima iterazione del borg (forte) rimasta in uso per circa un secolo a partire dal 300 d.C. avesse un’estensione più contenuta ed una porta in legno che andò presumibilmente bruciata, prima di decidere di ampliare significativamente la circonferenza fino alla misura dell’insediamento destinato ad essere abitato tra gli anni 400 e 650. Epoca in cui, inspiegabilmente, la popolazione decise di abbandonarlo, lasciandolo a un degrado che avrebbe avuto termine soltanto attorno al 1170, quando i borgomastri della seconda isola della Svezia, irrilevante nei commerci ma famosa per le sue vaste pianure di terreno su base calcarea dalla notevole fertilità agricola, decisero di stabilire presso l’antico castello una guarnigione di cavalleria permanente. Occasione in cui le mura vennero riparate, rinforzate ed all’interno si arrivarono a disporre circa un centinaio di dimore di acquartieramento, in posizione tanto ravvicinata da richiedere norme d’utilizzo del fuoco altamente regolamentate: un sola cucina era presente, nello spiazzo centrale, mentre gli spazi di lavoro del fabbro erano rigorosamente posizionati all’esterno. Ma va da se che a quell’epoca, le antiche prassi di sacrifici animali non erano più neanche un ricordo, mentre la nuova razionalità dell’Alto Medioevo poneva le basi di un processo tecnologico destinato a cambiare le priorità e regole stesse della civilizzazione umana.

La singolare iniziativa dal troppo realismo istituita nel 2005 ebbe dunque fine a novembre di quello stesso anno, per l’accesa campagna denigratoria dei media e l’accusa, non del tutto priva di fondamento, che le carcasse di cavalli in questione fossero stati procurati senza l’osservanza di esistenti regole in relazione alla gestione e smaltimento dei resti animali. Mentre la ricostruzione pratica con figuranti avrebbe avuto ancora un’abbondante decade per continuare il suo perfezionamento, prima che un calo dei fondi disponibili, o forse dell’interesse da parte dei turisti provenienti da terre lontane, permettesse di trovare destinazioni più soddisfacenti per le sovvenzioni culturali svedesi. Il che è forse oggettivamente un peccato, visto come il sito sia una destinazione relativamente remota, visitabile in un tempo comparativamente piuttosto breve. Nonostante l’importanza che riveste, nella costituzione di un quadro storico realmente valido della sua intera regione di appartenenza. E chi continuerà, negli anni, a visitarla? A parte le scolaresche delle zone limitrofe che, doverosamente, continuano a venire per rendergli una sorta di omaggio istituzionalizzato, con lezioni pratiche e lunghe spiegazioni dei loro insegnanti. Sotto l’egida e supervisione degli antichi spiriti nitrenti, la cui criniera invisibile si eleva a sfumare nell’immensa eternità dei cieli distanti.

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