Il paradosso tecnologico della nave di Teseo comporta la fondamentale domanda relativa a come, se un battello vede sostituito ogni suo singolo componente, uno alla volta col trascorrere delle generazioni, si possa continuare a chiamarlo con lo stesso nome. Una questione che decade nel momento in cui tale importante manufatto, trovandosi da sempre nello stesso luogo, venisse definito in modo molto semplice la nave (che si trova) presso il domicilio di Teseo. Distinzione ancor più valida qualora le persone incaricate di suddetta manutenzione reiterativa fossero gli stessi discendenti di una serie di linee di sangue, e addirittura il legno utilizzato provenisse dallo stesso boschetto. Connotazioni maggiormente semplici da perseguire, nel momento in cui l’oggetto preso in considerazione fosse un elemento statico e infrastrutturale, come per l’appunto un ponte – hashi, 橋. Così muta la lettura di tale carattere, in base alle leggi di pronuncia della lingua giapponese, in modo che un toponimo diventi Kintaikyō, 錦帯橋: Il ponte della bella regione/cintura. Costruito per la PRIMA volta nel 1673. E per ulteriori 63 casistiche a seguire, ogni qual volta un disastro naturale, una piena o la semplice usura ne comprometteva l’utilizzabilità futura. Il che potrebbe indurre a pronunciare il fatidico ammonimento: “Non costruite tali cose con il legno” Ma trovandoci in un simile contesto, inutile farlo notare. Si tratta, semplicemente, del Giappone. Qui ad Iwakuni, nella prefettura di Yamaguchi (parte occidentale dell’isola di Honshu) ove si trovò a ritirarsi il controverso signore feudale Kikkawa Hiroie, che aveva tradito il suo clan supremo dei Mori all’alba della fatidica battaglia di Sekigahara dell’anno 1600. Provvedendo in seguito e indirettamente a salvarlo dall’annientamento, avendo chiesto al trionfatore di quel fatidico conflitto di sequestrare, piuttosto che agire in tal senso, una parte dei suoi stessi domìni. Dopo di che neppure il nuovo signore assoluto dell’intero arcipelago, Ieyasu Tokugawa, avrebbe avuto nulla da dire quando costui, ritiratosi presso un’ansa del fiume Nishiki, scelse di tutelarsi da ulteriori declassamenti con la costruzione di un castello dalla posizione estremamente difendibile, quanto isolata rispetto all’antistante insediamento civile. Urgeva, a quel punto, l’installazione di almeno un sistema di collegamento atto a transitare oltre quelle acque strategicamente rilevanti, per cui Kikkawa fece costruire vari ponti dalla struttura unicamente costruita in legno. Ciascuno dei quali, indifferentemente, furono spazzati via con il trascorrere degli anni impietosi. Ci sarebbe voluto fino al regno del suo secondo successore, il terzo daimyō dell’epoca Edo, Kikkawa Hiroyoshi, affinché nel 1673 si giungesse all’idea di un “ponte ultimo” che potesse, idealmente, risolvere il problema per gli anni a venire. Con parte superiore ricavata dai pini locali ma posizionata su piloni di pietra, dotata di cinque archi e due camminamenti lineari alle rispettive estremità di un tratto di fiume dall’ampiezza di 175 metri. Destinato a resistere, nella sua prima iterazione, fino alla piena dell’anno successivo alla sua inaugurazione ,quando venne interamente spazzato via dalle acque vorticose del fiume Nishiki. Ma questo costituì l’inizio, piuttosto che la fine della sua storia…
Si narra che il signore Kikkawa, dopo aver chiesto al celebre falegname Kuroemon Kodama di Koshu di realizzare per lui un ponte privo di piloni analogo al Saruhashi di Enkyo, si fosse scontrato con l’impossibilità di adottare una soluzione simile per un attraversamento tanto maggiormente esteso. Dal che l’idea, che gli sarebbe venuta secondo una leggenda osservando delle tortine di kakimochi parzialmente immerse durante la cottura, di costruire non uno bensì una serie di archi. Altrettanto ispirata, possibilmente, ai resoconti del monaco in visita Dúlì xìng yì (独立性易) che potrebbe avergli narrato dei ponti simili costruiti tra le isole del Lago Occidentale di Hangzhou, nella distante Cina dei Ming. Un principio eminentemente valido, tanto che dopo l’ennesimo crollo del 1674, il padrone delle terre si affrettò a farne ricostruire la versione locale, dopo un’accurata riprogettazione dei piloni al fine di lasciar scorrere meglio le acque in piena. Procedendo inoltre a appoggiare solamente gli archi superiori, affinché un flusso eccessivo potesse limitarsi a scardinarli dai loro luoghi d’appoggio, senza nel contempo trascinare via l’intera struttura del ponte. Le cose, a quel punto, migliorarono benché le riparazioni ed opere di manutenzione del Kintaikyō non potessero mai realmente cessare, con una sostituzione istituzionalizzata degli archi centrali ogni periodo di 20 anni e delle parti lineari alle estremità al trascorrere di periodi pari a 40. A tal fine, il clan Iwakuni istituì una tassa chiamata Hashidemai, ovvero “per i lavori al ponte” che tutti i loro sottoposti erano tenuti a pagare, inclusi i contadini e la gente comune a cui veniva, comunque, rigorosamente vietato l’utilizzo del prestigioso attraversamento. Dedicato, di suo conto, all’esclusivo utilizzo dei samurai e famiglie di mercanti con speciali lasciapassare, una convenzione destinata a durare fino alla fine dello shogunato Tokugawa e l’inizio dell’epoca di modernizzazione del regno dell’imperatore Meiji (1868).
L’attuale struttura tecnologica con pannelli di colmo sovrapposti, mantenuti in posizione da singole travi trasversali di ciascuna campata, venne raggiunta attraverso i secoli XVI e XVII attraverso le innumerevoli successive iterazioni del ponte, fino all’aggiunta successiva di coppie di ferri a forma di C per l’incremento sostanziale della solidità complessiva. Laddove inizialmente il ponte non prevedeva infatti l’uso di un singolo chiodo, si sarebbe in seguito adottato l’uso di questi ultimi benché realizzati rigorosamente in ferro tradizionale di tipo tatara, piuttosto che l’acciaio importato da fonti esterne. Fino ai restauri che hanno continuato ad essere compiuti in epoca moderna, dopo che nel 1895 al declino del clan Iwakuni fu istituita l’Associazione di Preservazione del Ponte Kintai, che avrebbe chiesto ed ottenuto la qualifica del proprio sito eponimo come luogo di bellezza paesaggistica nazionale. Il che non sancì, d’altronde, l’ultima ricostruzione pressoché integrale vista la devastazione arrecata il 14 settembre del 1950, quando il tifone Kizia spazzò via quasi completamente il ponte per la prima volta da 276 anni. Ciò a causa, si ritiene, della mancata manutenzione durante gli anni della seconda guerra mondiale ed anche la riduzione di materiali dagli argini fluviali, operata durante la costruzione pochi anni prima di una base d’aviazione delle forze d’occupazione americane.
Con un’impostazione mentale assolutamente tradizionalista, che avrebbe categoricamente rifiutato l’offerta da parte del governo di un ponte realizzato in cemento, la gente di Iwakuni avrebbe continuato a preservare la propria insostituibile eredità degli anni dei samurai. Con la ricostruzione nel 1962 dello stesso castello del clan, demolito durante gli anni dell’egemonia Tokugawa per la politica di accentramento del sankin kōtai, che aveva obbligato i signori feudali ad abbandonare le proprie residenze marziali e trascorrere una parte dell’anno in apposite dimore nella capitale dello shogun. Così il Giappone, lungi da abbandonare mai gli antichi metodi, avrebbe visto egualmente mantenere, ancora dopo gli ultimi processi di restauro del 2001-2004, il ponte di Kintan esteriormente invariato dalla sua prima iterazione poco più di mezzo secolo dopo la battaglia di Sekigahara. Indubbiamente la ragione per cui ancora oggi viene considerato uno dei “tre grandi ponti” giapponesi, assieme al Meganebashi di Nagasaki ed il Nihonbashi di Tokyo. Spiccando anche tra questi, grazie alla sua collocazione in una zona dalla densità urbanistica decisamente minore, offrendo in aggiunta l’opportunità ben nota di osservare schiere di ciliegi in fiore. E i cormorani addestrati che pescano nel fiume, un’aggiuntiva tradizione notevole della zona di Iwakuni. Così come in nessun altro luogo della Terra e con buona pace dell’UNESCO che, allo stato attuale, non ha ancora nominato questo sito nell’elenco dei suoi patrimoni.
Forse perché non riesce a comprendere, persino adesso, il complicato paradosso prototipico sul rifacimento di navi eroiche della mitologia del Mondo Antico.