Come il fuoco incontrollato nei cinque elementi, l’odio è il sentimento nella ruota dei possibili stati d’animo che nella maggior parte delle circostanze non produce ma distrugge, annienta e dispone soltanto le basi, se tutto va bene, per una rinascita futura dallo stato di assoluto annientamento dei fattori esistenti. Non è d’altra parte molto semplice, in determinate circostanze, identificare i chiari segni dell’odio: in questo video dal formato verticale, sufficiente ad identificarlo come materiale di TikTok o Instagram, un “agricoltore” armato del più grosso dei coltelli pare accanirsi con intento distruggente contro un boschetto di alberi sottili. Ma le apparenze come spesso capita possono facilmente trarre in inganno, innanzi tutto perché quelli non sono arbusti bensì dei cespugli alti e sottili. Capite cosa intendo? Siamo di fronte ad una macchia di Manihot esculenta che qualcuno della sua famiglia, o costui in persona, esattamente 10-11 mesi prima si è amorevolmente impegnato a piantare. E adesso senza un briciolo di misericordia, taglia e sradica, smonta un pezzo per volta. D’altra parte appare chiaro il presupposto necessario: non è possibile amare la Manioca, senza devastarne la fondamentale essenza. Si tratta se vogliamo di un tipo di attività agricola piuttosto estenuante. E sgradevole in apparenza. Ma direttamente responsabile come sesta fonte agricola di calorie consumate dalla specie umana. Soltanto noi del cosiddetto Primo Mondo tendiamo normalmente ad ignorarla. E difficilmente Sudamerica, Asia ed Africa potrebbero fare a meno di questa pianta. Poiché, certo: da un punto di vista pratico, qui siamo innanzi al sostituto potenziale di uno dei pilastri irrinunciabili della dieta d’Occidente. Vedi per l’appunto la patata, ma condizionata da un processo produttivo totalmente diverso e una preparazione della manodopera che affonda le proprie radici nell’epoca pre-moderna. A 10.000 anni fa, per essere precisi, quando gli abitanti preistorici del Brasile riuscirono per primi ad “addomesticare” questa pianta complessa. Attraverso iterazioni successive non del tutto frutto dell’intuito, quando si considera come di tutto il vegetale l’unica parte effettivamente commestibile per l’uomo sia la radice principale, composta da 8-9 diramazioni carnose cariche di sostanze nutritive mentre fusto, rami e foglie vengono oggigiorno gettate via nel compostaggio o accumulate al massimo come mangime per il bestiame. Previa processazione necessaria, s’intende, attraverso bollitura o cottura parziale, data la propensione altrimenti dei suddetti animali a transitare rapidamente verso il prossimo stato dell’esistenza. Questo perché la cassava in ogni sua singola parte, che potreste conoscere col nome di manioca (o yuca, con un c soltanto) possiede anche l’innata caratteristica di una quantità notevole di cianuro tra le proprie componenti chimiche interne. Il che significa che consumarla, in condizioni inidonee, può risultare sufficiente a indurre anche nell’uomo condizioni cliniche o semplicemente la morte. Un po’ come nella leggenda gastronomica del fegato del pesce palla…
Ma quali e quante ricompense, per chi ha il coraggio di sfidare il fato come ingenti fasce di popolazione prima del momento presente! Tradizionalmente utilizzata in Brasile per la preparazione della farofa, un tipo di farina tostata e consumata direttamente, con bacon, cipolle, olio ed aglio, è tipica la consistenza, se non il sapore che una tale polvere tende a donare ai piatti consumati in un ampio ventaglio di circostanze. D’altra parte la manioca non possiede un carattere particolarmente “forte” o preponderante, così come per le suddette patate che ben conosciamo, per lo meno una volta sottoposta ai trattamenti necessari affinché risulti commestibile per chi desidera vedere l’alba sorgere dopo la notte successive. Ma caratteristiche nutritive che potremmo facilmente giudicare superiori, soprattutto in un contesto pre-moderno: 125 calorie contro 75 e 30 g di carboidrati contro 20,1 su 100 grammi totali di prodotto. Il che non impedì d’altronde ai primi coloni del Nuovo Mondo, principalmente i Portoghesi e Spagnoli, di diffidare grandemente del consumo di un simile prodotto, utilizzato principalmente sulle navi di ritorno verso l’Europa in cui i marinai si lamentavano continuamente del suo consumo, affermando che fosse adatta unicamente agli indigeni e causasse problemi di stomaco e digestione incipienti. Finché un poco alla volta, nelle esportazioni del XVI e XVII secolo questa coltura non giunse inevitabilmente oltreoceano, aprendo prospettive nuove a cuochi dalla mente particolarmente aperta. Ma il vero successo pratico della cassava, pianta in grado di prosperare davvero soltanto nei climi umidi e tropicali, sarebbe giunto agli albori dell’epoca moderna e in luoghi come le colonie africane ed il sud-est asiatico, le cui popolazioni cominciarono a importarne grandi quantità scoprendo quanto potesse essere pratica da coltivare, nonché utile una tale pianta. Capace di crescere liberamente ed in modo asimmetrico all’interno di un determinato terreno lasciato interamente a se stesso, permettendone la raccolta dell’esatta quantità necessaria abbattendone una parte in un preciso momento dell’anno, mentre il resto delle nutrienti radici continuano agevolmente a vegetare. C’è molto da amare inoltre in un tipo di raccolto che gli animali selvatici lasceranno istintivamente indisturbato, così come gli ipotetici ladri privi di stabilimenti o macchinari necessari per l’ottimale processazione delle varianti maggiormente amare e produttive in termini del beneamato ingrediente. Studi successivi all’anno 2000 hanno inoltre dimostrato una capacità di questa pianta precedentemente insospettata e potenzialmente irrinunciabile nell’attuale condizione del globo terrestre. Sto parlando della propensione ad assorbire capacità proporzionalmente crescenti di CO2, con conseguente aumento della crescita e restituzione della problematica sostanza al sottosuolo. Un’utile effetto collaterale, se non altro, del pervicace disboscamento operato nei molti paesi soggetti alla necessità corrente di una dolorosa, quanto tardiva modernizzazione della propria industria.
Nient’altro che un super-cibo, dunque? Qualcosa che un domani mangeremo tutti per obbligo, essendoci trovati a rinunciare ad alternative precedenti e più saporite? Dipende. La manioca non è mai del tutto priva di un fascino al palato, almeno quando preparata adeguatamente o impiegata in qualità di “materia prima” di un’ampia selezione di ricette. Soprattutto in Cina e Giappone, ad esempio, essa è alla base di una larga quantità di proposte culinarie e potreste in modo particolare averla assaggiata per le popolari “nuvole di drago” o krupuk udang, lo snack insaporito al gambero dalla caratteristica consistenza leggiadra e farinosa. Importante anche la tapioca, un prodotto amidaceo venduto talvolta in forma di perline opalescenti, usato come additivo nelle torte o altre tipologie di dolci. In tutta l’India, essa è considerata l’ingrediente insostituibile per molti kizhangu o biyyam, piatti a base di carne con chili consumati da letterali milioni di persone ogni ogni giorno. Così come avviene in Africa, in paesi come il Ghana ed il Congo, dove risulta effettivamente preferita dalla popolazione ad alternative non soltanto maggiormente complesse da coltivare, ma disallineate alle preferenze gastronomiche di chi ha facoltà di scelta.
Poiché è inerente l’esigenza inevitabile di ritrovarci prima o poi al cospetto di una sorta di bivio pratico nel proseguire dell’umana vicenda, con la lama del coltello risplendente stretta nel nostro “insanguinato” pugno. Distruggere la manioca, e per questo scegliere finalmente di amarla? O lasciarla lì dov’è, rinfoderando il machete e continuando così a preferirgli qualcosa di diametralmente opposto? Poiché morire di fame non è mai, realmente, una scelta…