L’approccio progettuale della bionica è l’impegno esplicito a imitare in qualche modo, che risulti ragionevolmente produttivo, l’effettiva configurazione dettata dai crismi dell’evoluzione, ovverosia l’aspetto ed il funzionamento degli esseri viventi. Vi sono tuttavia degli ambiti, come il trasporto veicolare su ruote, dove semplicemente nessun cavallo può effettivamente essere condotto ad una forma utile allo scopo, per il mero fatto che un quadrupede non ha cabina, parabrezza, sedili o fari per illuminare il sentiero… Né la caratteristica forma quadrangolare, più o meno stondata, che da sempre tende a caratterizzare l’automobile nella stragrande maggioranza delle sue modalità d’impiego. Già, ma perché? Forse in nessun altro ambito della tecnologia contemporanea, l’essere umano è apparso guidato da una sorta di principio tecnologico impossibile da alterare, come un dogma ereditato da generazioni di effettivi precursori delle proprie stesse idee. Anche se a pensarci, voltandosi di lato avrebbe avuto l’opportunità di prendere in esame approcci alternativi ed altrettanto, addirittura maggiormente validi alla pratica implementazione del pretesto basilare occorso. Ritorniamo dunque alla figura, tanto a spesso venerata, dello scattante, capelluto equino. Che la natura ha dotato, con particolare osservanza alle concause di effettiva sopravvivenza, di un punto di snodo affine a quello di ogni altro essere vertebrato: il collo. Molto più che una semplice piattaforma per organi sensoriali, soprattutto quando può succedere che al punto e nel momento di un impatto accidentale o caduta, questi ultimi e il cervello siano messi in salvo, grazie ad un rapido quanto immediato scarto laterale del suo possessore. Ed ecco forse l’effettiva ispirazione, a ben vedere, di Walter C. Jerome, inventore con preparazione formale presso l’Università di Boston e aspirante imprenditore di Worcester, Massachusetts, il quale prendendo coscienza della ponderosa inerzia dell’industria principale di Detroit nell’immediato dopoguerra, fu tra i primi ad esclamare: “Basta, è ora di cambiare le cose.” Ove le circostanze tristemente accettate prevedevano, ormai da troppo tempo, la pressoché totale assenza di attenzioni riservate alla sicurezza di guidatore e passeggeri in caso d’incidenti, con oltre un milione di vittime stimate dall’invenzione del carro a motore fino al palesarsi del fatale attimo vigente. Molte delle quali perite per una contingenza oggi facilmente evitabile, mediante l’installazione di barriere oblique sotto l’abitacolo che guidino il motore lontano dai passeggeri nel momento stesso in cui l’inerzia dell’impatto porti il mezzo ad accartocciarsi. E tale massa ad insinuarsi, come il diabolico macigno di una catapulta, tra i sedili occupati dal corpo dolorosamente vulnerabile delle persone. “A meno che…” riecheggiano gli slogan del suo tentativo di promuovere una soluzione “…Lo scompartimento umano si presenti come un pezzo totalmente separato, unito tramite a uno snodo con la componente incline a generare l’energia motrice. Affinché il suddetto impianto, nel momento dell’impatto, scivoli di lato? Colpo di genio o mero sogno della pipa, come nella celebre metafora statunitense? Qualunque fosse l’effettiva probabilità dei fatti, questa era l’idea dietro Sir Vival, un prototipo automobilistico il cui nome di battaglia potrebbe essere reso in Italiano con il bizzarro gioco di parole: “Sir Super-Vivenza”. Ah, magnifico e terribile, poteva essere il marketing degli anni ’50…
La chiave di lettura del concetto a base della Sir Vival può essere dunque individuato nel modo in cui all’epoca non era affatto insolito che piccole officine, o persino tecnici individuali si specializzassero nell’installazione di caratteristiche connesse al soppresso istinto d’autoconservazione degli automobilisti, come cinture di sicurezza, vetri laminati o parafanghi sporgenti capaci di agire come una sorta di rudimentale crumple-zone. La strada scelta dall’indubbiamente ingegnoso progettista di Worcester risultava essere tuttavia decisamente più radicale. Avendo egli acquistato qualche anno prima del ’58 una Hudson Commodore del modello di una decade prima, con l’obiettivo specifico di farla a pezza e ricostruirne da zero i connotati. Il che avrebbe portato, dopo un tragitto durato a quanto si narra per un lungo periodo di 10 anni, alla creazione che sarebbe per sempre rimasta legata al suo nome. Avevate mai visto, d’altronde, niente di simile? Il veicolo la cui parte posteriore mostra ancora le linee e la disposizione dei finestrini del suo punto di partenza, ma sul davanti mostra l’improbabile scompartimento col motore e la trasmissione, incapsulati dentro un “muso” snodato capace di trainare il resto, esattamente come gli animali legati con le briglie alla parte frontale di un calesse. I volantini fatti stampare dall’autore ed entusiasticamente distribuiti prima alla stampa specializzata, poi durante le fiere a cui avrebbe partecipato a Springfield e Boston con la sua incredibile creazione, fino all’epico frangente della Fiera Mondiale di New York del 1964, ne illustrano sapientemente i punti di forza. Che vanno ben oltre il solo punto d’articolazione titolare, vedendo la seconda più evidente caratteristica di distinzione nella strana torretta sopraelevata dedicata al guidatore, concettualmente non dissimile da quella di un carro armato. Da cui egli, posto centralmente e perciò maggiormente protetto in caso d’incidente, avrebbe avuto un’invidiabile visione ininterrotta a (quasi) 360 gradi sulla strada e tutto ciò poteva mettersi di traverso, potendo inoltre beneficiare di un avveniristico sistema in grado di far ruotare il parabrezza, contemporaneamente riscaldato e pulito mediante dei tergicristalli posti in posizione stabile lungo suddetta circonferenza. Assolutamente degno di nota anche il terzo faro centrale del tutto simile all’occhio di Polifemo, capace di sterzare assieme all’assemblaggio delle ruote, illuminando in questo modo il resto della curva in modo analogo a quanto era stato previsto per un altro prototipo accantonato prima di quegli anni, la Tucker del 1948 costruita a Chicago dall’omonimo ed antecedente rivoluzionario dell’universo dei trasporti su strada. Ancorché Sir Vival andava ben oltre nella sua ricerca di sicurezza anche a discapito dell’aspetto, mediante l’inclusione di un intero bordo gommato e gonfiato come uno pneumatico per la carrozzeria, idealmente in grado di assorbire parte dell’energia d’impatto negli inevitabili incidenti stradali (ed il 100% dei graffi e intaccature dovute ad un maldestro parcheggio). Per non parlare del meccanismo utilizzato per gli sportelli scorrevoli all’indietro, in questo modo concepiti al fine di restare chiusi nel suddetto frangente, evitando nelle parole dello stesso costruttore di “Espellere la gente in mezzo alla strada” con conseguenze molto facili da immaginare. Una prerogativa chiaramente desiderabile in un mondo in cui ancora molto pochi indossavano la cintura di sicurezza, benché tale caratteristica fosse comunque inclusa nella dotazione della Sir Vival.
Di questo letterale mostro di Frankenstein (dopo tutto, anche lo scienziato inventato da Mary Shelley cercava originariamente di fare il bene) fu dunque costruito soltanto un singolo prototipo, che nonostante il successo tra il pubblico non fu abbastanza per acquisire i fondi necessari ad istituirne una produzione in serie futura. O forse, più semplicemente, Jerome non aveva la stessa scaltrezza come uomo d’affari del suo predecessore accantonato dalla storia dopo essere morto prematuramente, l’eroico ed iper-ottimista Preston Tucker di Capac, Michigan. Contrariamente a quanto si potrebbe credere, tuttavia, il destino della sua opera donata al mondo non fu quello di essere distrutta o riciclata, con l’inestimabile (?) Sir Vival custodita per decadi dopo la sua dipartita negli anni ’70 presso il concessionario di auto usate e d’epoca Bellingham Auto Sales di Hudson, prima di essere venduto nel 2022 al Museo dei Motori di Lane a Nashville, Tennessee. Nelle cui sale il curioso reperto appare in effetti alquanto rovinato, coperto di ruggine e in attesa di un significativo restauro, più volte promesso e non ancora completato nel corso degli ultimi anni, l’ultima delle quali tramite un post su Facebook del gennaio del 2023. Ma va pur detto che un oggetto in apparente rovina, benché integro nelle sue parti fondamentali e perciò tanto maggiormente autentico in assenza di una falsa patina di novità, conserva inerentemente un certo fascino imperituro.
Chi potrebbe mai pensare di “restaurare” una mummia egizia, o un fossile di dinosauro? O il primo esempio di un cavallo la cui spina dorsale poteva piegarsi, permettendogli di voltarsi da una parte mentre camminava, come niente fosse, praticamente all’opposto!