Il post-modernismo è un canone espressivo che sembrerebbe ancora ben lontano dai videogame di azione. In un ambito dominato dall’aspetto tecnologico e visuale, con giochi tesi massimamente ad utilizzare l’ultimo engine tridimensionale o le innovazioni più significative di gameplay ed interattività, difficilmente può trovare posto la reinterpretazione soggettiva di modelli ed idee. Sulla base di meccaniche immutabili ed apparentemente comuni, il picchiaduro bidimensionale è quanto di più vicino ad un filo conduttore ininterrotto possa trovarsi in questa sotto-classe di videogiochi, spesso affiancato ma mai sostituito dalla sua naturale evoluzione in 3D. Quest’estate, tra luglio ed agosto, il mondo occidentale riceve finalmente l’adattamento di due giochi simili per gameplay e nel loro approccio tradizionalista: l’uno costituisce innovativa chiave di lettura di una serie decennale e largamente affermata, mentre l’altro viene direttamente dagli autori di Guilty Gear, coloro che hanno saputo portare mostri, demoni e creature bizzarre dove prima trovavano posto unicamente guerrieri ed esperti di arti marziali.
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BlazBlue: Calamity Trigger, da Arc Systems, vanta l’estetica e lo stile di un moderno anime giapponese. L’ambientazione, vagamente steampunk, vede alcuni dei guerrieri selezionabili come componenti della futuristica e misteriosa Novus Orbis Librarium. Quest’organizzazione potente ed autoritaria, che nel prossimo secolo salverà il mondo da una catastrofe demoniaca e dalla conseguente guerra civile, domina i popoli attraverso l’uso di una particolare forma di “magia tecnologica”, definita Armagus. Il protagonista ed eroe della situazione, Ragna the BloodEdge, è il classico spadaccino in rosso che combatte contro un’ordine costituito ingiusto. Simile ad una versione con meno connotazioni heavy metal di Sol Badguy, il protagonista di Guilty Gear, Ragna ricorda anche l’archetipo dell’eroe (o anti-eroe) solitario giapponese moderno, come Dante di Devil May Cry, passando per Arucard (Hellsing) fino a Vash Stampede di Trigun.
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A combattere contro di lui un variegato cast di robot, tecnoninja e bizzarre creature, dimostrando l’usuale competenza della Arc Systems nell’immaginare e disegnare personaggi con le più strane armi e risorse. Carl Clover, il giovane austriaco con la tuba che utilizza una marionetta variamente aracniforme, va di pari passo con Arakume, una sorta di Preta (spettro) Buddhista e Bang Shishigami, il guerriero che usa in battaglia la forza distruttiva di… un chiodo gigante. Il gioco avrà un complesso story-mode completamente parlato, simile ad una digital-novel, con diversi finali possibili per ciascuno dei dodici personaggi selezionabili. I fondali sono interamente in 3D, come nel secondo Marvel vs. Capcom (prima edizione del 2000, ma in uscita in questi giorni su Xbox Live).
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Come osservabile da questo eccezionale video del gameplay, il nuovo King of Fighters XII di SNK Playmore sceglie piuttosto la via tradizionale. Il gioco è interamente disegnato a mano e bidimensionale, senza alcun artificio moderno quale cel-shading o fondali 3D, e mostra una qualità e fluidità quasi senza precedenti. Il modello realizzativo in questo caso sembrerebbe essere Street Fighter III (1997) che allo stesso modo rifiutava gli aspetti innovativi e più complessi della serie Alpha per tornare alle origini, e che pure curava molto il design delle animazioni e dei personaggi. Il cast risulta notevolmente ridotto rispetto agli episodi precedenti di King of Fighters, con “appena” 22 personaggi (Kof XI ne aveva circa il doppio) principalmente scelti tra i più classici e riconoscibili e con nessuna new entry tranne il boss. Ciascuno è stato però completamente ridisegnato ed adattato ad un nuovo stile del combattimento di gioco, più rapido, immediato e basato sulle combo.
La prima cosa che colpisce osservando questi giochi è la definitiva sconfitta di uno stereotipo: 2D non significa più minimalismo tecnico. Questo nuovo King of Fighters stupisce e cattura l’immaginazione con valori produttivi probabilmente alla pari con Street Fighter IV ed i più recenti Tekken o Soul Calibur, e difficilmente si potrebbe dire che la scelta di limitarsi a personaggi disegnati a mano ne riduca l’appeal – anzi, grazie all’alta definizione contribuisce probabilmente a dare maggior spazio alla creatività ed alla perizia dei designer. La totale assenza di trama, al di là del solito torneo, è probabilmente resa necessaria dalla presenza in contemporanea di molti personaggi provenienti dagli episodi passati, che si trovano quindi a combattere in una continuità narrativa completamente diversa.
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Il divario tecnico esistente tra la sala giochi e le console nelle nostre case è stato a volte significativo. Nei primi anni ’90, il picchiaduro era un genere esteticamente straordinario e realmente possibile solo nella sua classica forma a gettoni e su macchine dedicate. Prima il Super Nintendo, e diversi anni dopo il Sega Dreamcast, console mai realmente superate per caratteristiche tecniche in relazione all’epoca di rilascio, hanno contribuito a dimostrare che la sottile arte di rappresentare guerrieri in conflitto a pieno schermo poteva trovare posto meritevole anche sul divano e davanti la propria televisione. Successivamente, con il riconfermarsi della Playstation e dei beat’em’up in 3D – Tekken su tutti -il picchiaduro bidimensionale ha visto ridurre il proprio target ad un pubblico unicamente di nicchia. Oggi la distribuzione digitale ha riportato in primo piano la grafica bidimensionale: non solo riduce le dimensioni del download, ma può contribuire ad abbassare i costi di sviluppo. L’aspetto positivo resta tuttava la rinata attenzione per alcuni canoni espressivi e di gioco che difficilmente avrebbero potuto trovare posto nel moderno panorama di mercato.
Capita poi, come in questo caso, che per effetto retro-attivo alcune grandi compagnie decidano di sviluppare alla vecchia maniera prodotti così di alto profilo. Tutto a nostro vantaggio, ovviamente.