La timida foglia in mezzo all’erbetta sembrava proprio, ai tuoi occhi, il piccolo cuore stilizzato tra le pagine di un fumetto per bambini. Amore, grazia ed armonia erano i sentimenti che suscitava: “Oh, fantastico! Evviva la natura, che porta spontaneamente le piante nel mio giardino…” Avrai detto, meditando sull’aspetto che una simile ospite avrebbe teso a dimostrare. Finché pochi giorni dopo, attorno ad essa ne spuntava un’altra. E poi un’altra ancora. Ben presto la massa fibrosa e intricata continuò a crescere, e tu avresti potuto fare una di due cose. Essendo una persona ottimista o disinteressata alle cose vegetali: lasciarla stare. Un grosso errore. O contando sull’intuito e il potere del pollice verde, con grosse forbici ed altri attrezzature: tagliare, tagliare. A conti fatti, uno sbaglio persino peggiore! Poiché non è possibile sconfiggere ciò che non vuole e non può morire. Per il mandato ereditario dei propri fenotipi darwiniani, che l’hanno resa invincibile in un’ampia gamma di possibili circostanze incluse quelle, nello specifico, naturali. È il superamento in un certo senso della siepe concettuale, oltre la quale un qualsiasi essere vivente, semovente o meno, può serenamente affermare di essere in grado di sopravvivere all’estinzione dell’uomo. E se lasciato alle proprie macchinazioni, cominciare serenamente a sovrascriverlo, fin da ora. Fallopia japonica o poligono, tuo nome è verità. Accompagnata da una rivelazione: se qualcosa convive tranquillamente con gli uomini nel suo spazio legittimo di appartenenza, questo non significa che potrà farlo altrove. Dove “altrove” è praticamente ogni singolo altro paese al mondo, inclusi Inghilterra, Stati Uniti, Olanda, Italia e luoghi lontani, come l’Australia, in cui attraverso l’ultima decade una simile pianta ha trovato l’opportunità di affondare i suoi rizomi. La parte del ramo che cresce sottoterra, invisibile e impossibile da individuare, finché gradualmente, inesorabilmente, sbuca attraverso la terra, le crepe dell’asfalto, le intercapedini delle mattonelle. I tubi dell’acqua o del gas. Le pareti. Capite ciò di cui sto parlando? Ci sono piante come l’edera che ricoprono graziosamente le dimore avìte, disegnando superfici eleganti che alludono alla natura. Altre, dal conto loro, le stritolano e ci passano attraverso. Persone colpite dalle fasi successive di questa condanna, sanno che ogni volta che si allontanano dal proprio giardino per più di una settimana, lo troveranno di nuovo marcato dai segni inesplicabili dell’invincibile dannazione. E pensare che questa pianta oggettivamente ornamentale, alta fino a 4 metri nei periodi delle sue infiorescenze gialline e visivamente simile per il resto a un bambù dal gambo maculato (da cui l’impiego nel suo paese d’origine del nome Itadori – 虎杖: canna della tigre) fu trasportata intenzionalmente in Europa a partire dal XIX secolo, da botanici convinti di aver trovato la specie perfetta per ornare i viali e stabilizzare i fiumi. Vedi il caso dell’avventuriero tedesco Philipp Franz von Siebold, che ne scalò un vulcano per riportarne una radice agli orti londinesi di Kew. Aprendo letteralmente l’angusto pertugio, senza ritorno, alla scatola di Pandora e tutto ciò che poté derivarne in epoche ulteriori…
Il fatto del poligono, come viene chiamato dalle nostre parti per ragioni non molto chiare, nasce nel suo ambiente di appartenenza come pianta pioniera, una specie capace d’imporsi negli ambienti ancora brulli anticipando le mosse dei propri consimili vegetativi. In tal senso essa presenta una crescita rapida, nonché la capacità di replicarsi, oltre che mediante i semi, anche attraverso la crescita a partire da un singolo frammento di rizoma. Entrambe propensioni che mette in atto con diabolica efficienza: fino a 10 cm al giorno è la distanza estrusa dal livello del suolo, mentre appena un paio di centimetri e la grandezza minima necessaria ad un “pezzo” perché possa propagare il morbo della sua problematica esistenza. Tanto che molti giardinieri, chiamati per domare un’infestazione, potrebbero rifiutare repentinamente il lavoro, nel timore che il poligono possa infettare i propri strumenti o abiti, finendo per essere propagato altrove. E favorire la propagazione di un tale demone può rappresentare, in determinati ambiti geografici come l’Australia o la Nuova Zelanda, un grave crimine punibile con multa ed eventuale richiesta di risarcimento danni. Inclusa la casistica, oggettivamente comprensibile, di un proprietario che spontaneamente si mette a tagliare col tosaerba la parte arbustiva dell’essere. Favorendone soltanto lo spargimento nelle quattro direzioni cardinali, con conseguente condivisione dell’anatema. Questo perché l’unico approccio funzionale alla sua repressione è una metodologia combinata a basata sull’impiego di un potente diserbante a base di glifosato o imazapyr, subito dopo aver tagliato i rami onde permettere al veleno di penetrare attraverso l’organismo della pianta. Il che non garantisce, ad ogni modo, la vittoria considerato il modo in cui l’ampio reticolo irraggiungibile del rizoma, nei periodi di sofferenza, può agire come una batteria energetica, permettendo alla visitatrice aliena di sopportare gli abusi e ricresce la stagione successiva, persino più forte di prima. Richiedendo nei fatti un’operatività costante e ripetuta più volte, pena l’inutilità di ogni passo compiuto fino a quel momento. Né ad oggi sembrerebbero aver avuto gli effetti sperati alcuni esperimenti sostenibili condotti per la sua eliminazione, ivi compreso l’utilizzo sistematico del fungo delle foglie Mycosphaerella, oppure il rilascio dello psillide (cicalino) Aphalara itadori, il principale insetto giapponese incline a nutrirsi con modalità sistematica della pianta che porta il suo stesso nome riferito alla tigre. Un termine il quale, per inciso, potrebbe anche costituire in un doppio senso la storpiatura dei due termini itami (痛み) e tori (取り) ovvero “mandar via il dolore”, riferendosi alle ben note capacità medicinali della pianta. Che viene utilizzata in buona parte dell’Asia e secondo i crismi della medicina tradizionale in qualità di antidolorifico, contro il sanguinamento, per allontanare i segni della vecchiaia e le malattie della pelle. Oltre a costituire secondo i crismi dei ricettari tradizionali anche un ingrediente pregevole delle cosiddette sansai (山菜) o “insalate di montagna”, un tipo di piatto in cui il gambo vuoto e tigrato del poligono viene tagliato a fette trasversali, offrendo un sapore lievemente aspro che viene occasionalmente paragonato a quello del rabarbaro.
Poiché buono e malvagio, in ultima analisi, non sono concetti che appartengono alla natura. Ed è frequente proprio per questo la coesistenza del doppio principio nella stessa serie di circostanze, spesso a discapito dell’inquadratura appropriata di ciò che ci apprestiamo, volta per volta, a prendere in approfondita considerazione. È in tal senso davvero un problema che possa esistere qualcosa, a questo mondo, di tanto prolifico quanto il poligono giapponese? Oppure dovremmo assegnare la colpa di ciò che stiamo vivendo a coloro i quali, attraverso gli anni, lo trasportarono in luoghi impropri, pensando di poterne trarre un qualche tipo di rapido guadagno… Giacché la distinzione tra noialtri ed il resto degli esseri viventi di questo mondo è utile almeno in un caso: attribuire dove opportuno le colpe. Ed in certi casi, le giuste ricompense. Così come una cornice di attraenti foglie a forma di cuoricini che caratterizzano, in modo poco apparente, l’incedere cupo dei giorni a venire.