Una mente realmente efficiente non può fare a meno di essere slegata dal proprio corpo. Dopo tutto non è forse proprio questo l’obiettivo dell’attività meditativa associata a tante religioni e discipline orientali? Alleggerire, liberare il pensiero, per tornare sulla Terra liberi dalle catene metafisiche capaci d’intrappolarci ancor più strettamente della gravità stessa. Ma soprattutto, tale stato riesce ad essere desiderabile in tutti quei casi in cui ci si avvicina ad una mansione creativa, intesa come valida attribuzione delle nostre abilità inerenti ad uno scopo pre-determinato. Come dipingere un quadro. Scrivere un romanzo. O costruire un muro. Del tipo a secco, s’intende, ovvero privo di un medium che obbliga i componenti ad aderire l’uno all’altro, risultando per di più questi ultimi la risultanza pressoché diretta di un processo produttivo pregresso. Niente affatto, capo! Anche perché si tratta di un approccio che inerentemente implica difficoltosi aspetti da considerare: il costo in termini di tempo (ed impronta carbonica) d’immense, sempre più numerose fabbriche di mattoni; la necessità logistica di trasportare il materiale a destinazione fin da un centro operativo distante. Nel mentre un esperto addetto ai lavori ben capisce come niente di più comune occupi gli spazi delle nostre valli e pendici montane, che letterali laghi di macigni, oceani di massi, diluvi di detriti sovradimensionati. Esattamente quel tipo di orpelli che gli antichi, tanti secoli o millenni a questa parte, avevano imparato a sovrapporre come in un gioco spaccaschiena del Tetris, creando un tipo di elementi architettonici capaci di superare indisturbati il passaggio delle generazioni. Ed è proprio questa l’idea del macchinario dotato di una “sua” mente, rigorosamente artificiale, creato dal precedente ricercatore del Politecnico di Zurigo, Ryan Luke Johns, ad oggi CEO della sua startup per il settore dei contractors, o per meglio dire un settore che a partire da un domani potrebbe anche fare a meno dei contractors stessi. Grazie a un circo di robo-animali di cui l’oggetto qui presente potrebbe anche essere soltanto il precursore. Pur risultando incomparabilmente, innegabilmente utile in ciò che gli riesce meglio. Definito HEAP (Hydraulic Excavator for an Autonomous Purpose) esso tende a presetnarsi come un Menzi Muck M545 da 12 tonnellate con configurazione “camminatrice” o “a ragno” dotato di una quantità superiore alla norma di sensori e tecnologie di rilevamento. Questo per la predisposizione a ciò che riesce ad essere una rara prerogativa: quella di muoversi e operare nella più totale assenza di un guidatore umano. Mentre sposta, solleva, seleziona ed osserva attentamente i suddetti agglomerati minerali prima d’impegnarsi a sovrapporli in una configurazione particolare. Quella necessaria affinché, spalleggiandosi l’uno con l’altro, si sostengano a vicenda per molti anni a venire…
Lo studio scientifico dalle vaste applicazioni commerciali, inaspettatamente pubblicato ed accessibile online sulla rivista Science Robotics parla dunque di una sequenza di passaggi estremamente ben collaudata. A partire dall’iniziale scansione di ciascuna pietra mediante l’uso di tecnologia LIDAR, necessaria affinché risulti sollevabile mediante la benna stringente al termine del braccio della scavatrice. La quale una volta sollevato l’oggetto, provvederà a ruotarlo a 360 gradi proseguendo nella sua misurazione fino a creare un’accurata nube di punti, corrispondente a una riproduzione fedele del perimetro del potenziale candidato a materiale da costruzione. La mansione successiva prevede a questo punto la disposizione in file ordinate e conseguente memorizzazione delle caratteristiche di ciascun sasso, attentamente catalogata in un software di pianificazione geolocalizzato. Fino all’ottenimento di una soluzione completa nel fantasma della macchina, conseguentemente realizzata di lì a poco un pezzo alla volta. Non che per ogni “mattone amorfo” piazzato nella sua destinazione finale, il veicolo manchi di effettuare una prova di stabilità premendo da diverse direzioni con la benna, prima di definire completato il passaggio e passare all’elemento successivo. La rapidità di accatastamento, pari a 20-30 pietre per sessione di una mezza giornata circa, premetterà al muro di sorgere con velocità paragonabile a quella garantita da un’intera equipe di operai specializzati. Semplificando moltissimo e per quanto possibile l’arduo approccio che prevede normalmente una maggiore percentuale delle ore trascorse a studiare e immaginare i possibili incastri di ciascun pietroso componente. Senza considerare l’eliminazione pressoché totale del rischio di errori o eventuali incidenti, grazie all’infallibilità delle macchine nell’esecuzione di compiti ripetitivi. Persino quando questi ultimi dovessero risultare erratici o influenzati dalla teoria del Caos, proprio grazie alla tecnologia talvolta allarmante dell’intelligenza artificiale. La cui applicazione nel campo delle costruzioni del resto non risulta totalmente nuova, con un primo tentativo in ordine di tempo riconducibile alla metodologia fin qui descritta al centro di uno studio del 2002 dell’AFCR (Australian Centre for Field Robotics) facente menzione del rinforzo positivo nell’implementazione di routine comportamentali degli apparati autonomi. Così come nell’estate del 2021 un team dell’Istituto di Ricerca Baidu di Pechino aveva prospettato l’impiego di macchinari autonomi per l’accatastamento logistico dei materiali, possibilmente in parallelo alle prime pubblicazioni scientifiche del loro collega di Zurigo. Una serie di considerazioni che conducono inesorabilmente verso un futuro in cui “l’anello debole” dell’operatore umano andrà progressivamente a scomparire dallo svolgimento di particolari mansioni professionali. Con tutti gli aspetti positivi, e negativi che potrebbero derivarne.
Viviamo oggi in una civilizzazione che ha del resto già passato da tempo il punto della singolarità. Momento storico nel quale l’accelerazione degli aneliti, assieme al conseguente tentativo di realizzarli, continua progressivamente ad alimentarsi. Con uno sfruttamento particolarmente poco sostenibile di risorse materiali possibili, verso conseguenze fin troppo facili da immaginare.
Ragion per cui ogni teorizzato margine di miglioramento, indifferentemente a quanti posti di lavoro potrebbe far passare in secondo piano, necessita per forza di essere portato fino alle sue estreme conseguenze operanti. E se un giorno una maggiore quantità di persone dovrà scegliere di dedicare il proprio tempo e competenze a mansioni diverse, o magari apprendere l’impiego di mestieri nuovi, sarà la generazione di mezzo, come sempre, a pagare il prezzo maggiore. Scavo ed accatastamento non subiranno alcuna battuta d’arresto. Ed anche questo dovrà pur possedere un merito inerente, nevvero?