Una piccola elica e la cabina costruita a svilupparsi in senso verticale, ricordando un pesce della barriera corallina. Due ali principali ed un altro paio poste a fargli da ombra collegate con dei montanti, molto più corte, da cui sporge un carrello dai tre pneumatici simmetricamente distribuiti. Ed un paio di… Code? Poste in parallelo, totalmente scollegate l’una dell’altra, al termine di altrettante derive lievemente rastremate della corta fusoliera. È proprio vero, verrebbe quasi da esclamare, che con la giusta quantità di potenza quasi QUALSIASI cosa può riuscire a staccarsi da terra! Benché un’apparente mancanza d’efficienza, in certi determinati casi, possa tendere a portare in errore.
Fin dalla sua genesi etimologica, il termine anglofono truck ha voluto significare ben più della sua diretta traduzione come camion o autocarro, volendo indicare in senso più ampio il veicolo dotato di ruote la cui funzione fosse allineata con il senso più utilitaristico dell’esistenza. Carrozze da trasporto, all’epoca del Medioevo in cui venne perfezionato l’idioma destinato a diventare lingua franca di metà del mondo e con l’ingresso nell’epoca dei motori, tutto l’ampio comparto di SUV, fuoristrada o pickup stradali, inclusi come approcci personali alla necessità di movimentare una certa quantità di materiali inerti. Vedi il caso dell’attuale strano Tesla Truck di Elon, ma anche il prodotto di un’altra fervida mente tecnologica, vissuta tra il 1913 e il 2001, la cui funzione fondamentale era sostanzialmente quella di poter riuscire a staccarsi dal suolo. Pur non assomigliando, effettivamente, ad alcun aereo costruito fino a quel momento o nelle decadi a seguire, rispondendo unicamente ai crismi convenienti di quel mondo del design assecondato da un’inerente ricerca estetica di distinzione, tanto indissolubilmente associato anche nell’immaginario collettivo alla cultura del nostro paese. Giacché italiano era Luigi Pellarini (come dubitarne, visto il nome) ed originario nello specifico della città di Milano, quando nel 1944 si associò con la Carrozzeria Colli per la produzione e dimostrazione al pubblico del suo primo prototipo degno di nota: l’auto volante P1, sostanzialmente un piccolo aereo da turismo con quattro pneumatici stradali, dotato di due ali pieghevoli che potevano essere posizionate sopra il tetto, riducendo il suo ingombro stradale a quello di una vettura utilizzabile nel quotidiano. Così percorrendo 1800 Km per tutta la penisola da Torino a Bari, passando per Roma ed Ancona, egli fece quindi ritorno nella sua città, dove la presentò ufficialmente al cardinale Schuster, occasione in cui il settimanale il Tempo soprannominò la proposta veicolare con l’altrettanto insolita definizione “L’angelo degli adulti”. Tutti sembrava andare dunque per il meglio, fino al momento in cui sembrava di essere ormai prossimi alla produzione in serie…
Il fatto è che, possiamo constatarlo anche attualmente, in nessun paese al mondo l’automobile capace di sollevarsi da terra rappresenta una proposta di uso comune, per tutta una serie di ragioni tra cui non ultimo il costo generalmente significativo di tali implementi. Una barriera, questa, intensamente vissuta da Pellarini nell’Italia del dopoguerra, tanto che egli ben presto decise, come molti nostri connazionali di tale epoca, di emigrare all’estero. Dirigendosi, piuttosto che negli Stati Uniti, in Australia, dove potenzialmente riteneva esistere un mercato migliore per la sua vettura, a causa delle lunghissime distanze tra i singoli centri abitati di ciascuno stato. Egli avrebbe tuttavia scoperto, dopo alcuni entusiastici articoli sui giornali di quel continente, una sostanziale impossibilità di trovare finanziatori per l’idea, rendendola improbabilmente realizzabile esattamente quanto gli era capitato di constatare il patria. Guardandosi attorno con particolare attenzione all’aeronautica per uso personale, tuttavia, l’ingegnere aeronautico italiano iniziò a intravedere il profilo di un’opportunità nuova. La particolare aridità ed il complesso delle condizioni climatiche del meridione terrestre, infatti, tendevano a richiedere l’impiego in campo agricolo di un particolare fertilizzante composto da acido solforico ed apatiti, il cui nome era superfosfato. La cui distribuzione ad ampio spettro risultava alquanto problematica, trattandosi di una polvere che veniva scaricata direttamente dal portellone degli aerei, in contrapposizione alle sostanze liquide che potevano essere semplicemente nebulizzate. Il che portava, progressivamente, all’erosione della carlinga dei piccoli aeromobili, con conseguente aumento dei costi di manutenzione. Perché non tentare, a questo punto, d’intraprendere il sentiero di un possibile margine di miglioramento? Qualcosa di simile probabilmente egli disse, dopo essersi spostato in Nuova Zelanda nel 1960, alla compagnia Bennet e successivamente la Waitomo, rispettive costruttrici dei due prototipi di quello che sarebbe diventato il suo mezzo volante di maggior successo e popolarità, mediante l’utilizzo iniziale di componenti presi in prestito dai North American Harvards forniti alle Forze Aeree locali nel corso della seconda guerra mondiale. Il cosiddetto, come dicevamo, PL-11 Airtruck o “furgone volante” la cui forma altamente distintiva presentava dei vantaggi tutt’altro che indifferenti. Trattandosi di un velivolo sorprendentemente maneggevole, con la consueta bassa velocità di stallo dei biplani (o per essere più precisi, in questo caso, sesquiplani) ed oltre 800 litri di capienza nella stiva, utilizzabile oltre che per il serbatoio di fertilizzante anche al fine di trasportare in condizioni confortevoli un paio di passeggeri. Incaricati di organizzare lo scarico retrogrado del fertilizzante, dall’apposito portellone posto in mezzo alle code, la cui disposizione inerente permetteva anche ad un eventuale camion di trasporto agricolo di avvicinarsi per spostare il carico all’interno, poco prima delle opportune operazioni di decollo. Dopo un inizio travagliato, con la distruzione in fase di atterraggio del primo dei due prototipi, Pellarini si scontrò quindi con un problema molto più difficile da superare: l’effettivo esaurimento dei vetusti Harvard da cannibalizzare, soprattutto nell’idea di avviare la produzione sistematica dell’aeroplano, non lasciandogli altra scelta che trasferirsi altrove…
Così lo ritroviamo cinque anni dopo a Parramatta, nei sobborghi di Sydney presso lo stato australiano del Nuovo Galles del Sud, a colloquio con il connazionale Franco Belgiorno-Nettis, fondatore e direttore dell’azienda attiva nel settore agricolo della Transfield, individuo caratterizzato da una storica passione per il volo. Il che facilitò indubbiamente la creazione ad hoc del nuovo ramo aeronautico Transavia, che si sarebbe assunto l’incarico di produrre, pubblicizzare e distribuire il nuovo aeroplano, ribattezzato per l’occasione PL-12 Airtruk (senza la “C”) per non infrangere i diritti della Bennet e Waitomo. La nuova versione, d’altra parte, non era scevra di miglioramenti funzionali, tra cui una struttura rinforzata ed il motore orizzontale Rolls-Royce/Continental IO-520-D da 300 cavalli, rispetto al più potente ma meno affidabile Pratt & Whitney R-1340 del precedente modello. Con una velocità massima di 191 Km/h ed un rateo di salita pari a 3 metri al secondo, che contribuirono a farne un moderato successo nel campo dell’aeronautica agricola, e non solo. Dei 138 esemplari prodotti fino al 1993, d’altra parte, alcuni furono venduti all’estero in paesi come il Sudafrica e la Thailandia, con quest’ultima intenzionata a farne inizialmente un veicolo militare da attacco al suolo, dotato di bombe e mitragliatici per il fuoco di soppressione. Un piano che non ebbe, potremmo dire fortunatamente, mai modo di giungere a effettiva concretizzazione.
Poiché non ci sono molti altri aerei al mondo, capaci di vantare lo stesso piglio vagamente surreale e stravagante, apparentemente preso in prestito dai disegni di un cartone animato. O quelli usati per la preparazione di un film fantascientifico, come avvenuto nel caso della sua famosa partecipazione alla pellicola del 1985, “Mad Max oltre la sfera del tuono”. Un imprevedibile e tardivo sentiero d’accesso alla fama imperitura, quando ormai il settore dell’aeronautica sembrava essersi spostato oltre, dimenticando totalmente i sesquiplani. Ma purtroppo a Pellarini, pur avendo continuato a proporre per il resto della propria lunga vita iterazioni sul tema della stessa idea di massima, con i suoi ancor più pratici Airtanker (1967) ed Airjeep (1974), non sarebbe più riuscito di superare il successo del primo riuscitissimo Airtruk… Chissà se avrebbe avuto più successo, rimanendo in Italia!