Nella visione prototipica di un tale scenario, il pilota veterano dagli occhi color cobalto sarebbe salito a bordo grazie all’uso di una ripida scala a pioli. Dalla “base” di decollo nascosta in una piccola radura della Foresta Nera, circondato dal febbrile lavoro della propria orgogliosa ed elegante equipe. Un gruppo di tecnici affiatati in uniformi nere come la pece, intenti a preparare in vari modi al decollo quello che sarebbe potuto sembrare a tutti gli effetti un razzo da impiegare per il bombardamento della capitale inglese. Se non che all’accendersi dei suoi motori, collocati insolitamente al termine di tre massicce “ali” o “rotori” l’oggetto poco incline all’identificazione avrebbe cominciato a roteare febbrilmente su se stesso, tratteggiando un arco acuto nel terso cielo della madrepatria. alla velocità di 1.000 Km orari I suoi cannoni minacciosi scintillanti di orgogliosa furia guerriera. E pronti a dirigersi cercando, parallelamente al suolo fino all’altitudine di 15.000 metri, la candida e fluorescente scia del motore nemico.
La figura del polimata, altrimenti detto l’uomo rinascimentale, ha visto prolungare il mito dell’apprendimento parallelo ed i traguardi che può consentire di raggiungere una mente aperta, con la prospettiva dell’artista che apre strade per l’innovazione tecnologica precedentemente sconosciute ai propri contemporanei. C’è una cosa, tuttavia, che Leonardo da Vinci e i suoi colleghi del mondo arabo ed asiatico non riuscirono mai veramente a realizzare, sotto qualsivoglia punto di vista rilevante al suo funzionamento ideale: l’effettivo e imprescindibile volo dell’uomo. Nonostante tali e tante macchine visivamente affascinanti, simili ad uccelli di universi fantastici, per la bassa tolleranza per gli errori che questo obiettivo tende ad avere. Ed è proprio qui, in maniera inevitabile, che s’infrange il sogno della funzionalità apparente, la bellezza in qualità di pratica realizzazione di un concetto. Dove inizia il timido terreno della specializzazione. Che forse mancava, nel settore specifico, al fisiologo comportamentale Erich von Holst dell’Università di Göttingen, destinato a rimanere famoso per il suo lavoro di ricerca compiuto verso la metà degli anni ’40 sul volo degli insetti, attraverso cui riuscì a mettere in relazione gli impulsi sinaptici dei gangli cerebrali con la vibrazione ritmica delle loro ali. E le conclusioni che ne avrebbe tratto, conseguentemente, l’ala progettuale Luftwaffe nel tentativo eroico di applicare tali metodi alla progettazione di un “invincibile” aeroplano. Erano anni selvaggi quelli, d’altra parte, e nulla sembrava irragionevole di fronte alla necessità d’invertire la tendenza disperata del conflitto europeo. Con l’Armata Rossa che avanzava da Oriente e i bombardieri alleati in formazioni inespugnabili, che sorvolavano la Germania bombardando ogni fabbrica o pista di decollo che potesse capitargli a tiro. Mentre l’elite al comando, notoriamente dedita all’utilizzo assiduo di droghe psichedeliche, dipendeva direttamente dalla figura di un führer sempre più convinto del mito autocelebrativo delle wunderwaffe, le “armi miracolose” destinate in qualche modo a cambiare le sorti di una guerra prossima alla propria inevitabile conclusione. Persone come l’ingegnere Otto von Pabst e il produttore di aerei von Halem, all’epoca figure di spicco all’interno del bureau tecnologico della compagnia aeronautica Focke-Wulf di Brema, che avevano conosciuto l’opera di Holst e visto con i propri occhi i modellini che costui aveva creato, di ornitotteri e libellule in legno di balsa capaci di sollevarsi ruotando freneticamente su loro stessi. Da qui l’idea: non sarebbe stato possibile, forse, portare un’idea simile fino alle più estreme conseguenze? Di un velivolo a grandezza reale, intesa come quella necessaria a sollevare un esperto d’intercettazione con tutti gli strumenti del suo mestiere. Per trasportare, ancora una volta, l’inferno in cielo prevenendo che potesse palesarsi invece tra le strade fiammeggianti di una Germania che si era condannata da sola….
Osservando quello che sarebbe stato definito Focke-Wulf Triebflügel o Triebflügeljäger (“Caccia con ali a reazione”) utilizzando lo strumento di mediazione del senno di poi, non è dunque difficile pensare che l’ottimismo possa essere stato un fattore di rilievo nella sua metodologia di progettazione iniziale. Pur non avendo mai raggiunto il grado di prototipo, essendo rimasto all’interno del nutrito catalogo di follie prodotte dagli ingegneri tedeschi in quegli anni, esso appare come il culmine di un febbrile concentrato di nozioni ed anticipa, conseguentemente, alcune idee non del tutto prive di fondamento. Con la soluzione totalmente inusitata dei tre ugelli, effettivamente costituiti da niente meno che degli statoreattori Pabst da 8,9 kN ciascuno, montati diagonalmente su altrettanti rotori presso il punto mediano della fusoliera e utilizzati conseguentemente al fine d’imprimere il movimento responsabile, in tal modo, di generare la portanza del curioso dispositivo. Sebbene non prima, chiaramente, che i due German Walter 109-501 RATO, dei propulsori jet di tipo convenzionale, gli avessero fatto raggiungere una velocità idonea a dare inizio al ciclo di compressione dei suddetti vettori. Tutto ciò in assenza di alcun tipo di ala propriamente detta ma comunque grazie a una coda di stabilizzazione, completa di superfici di controllo, non diversa da quella che sarebbe stata utilizzata in seguito in un’intera sottocategoria d’aeroplani. Assieme al Wespe/Lerche della Heinkel, la creazione di Focke-Wulf rappresentava infatti uno dei primi esempi di quelli che sarebbero stati chiamati negli anni ’50 i posacoda, apparecchi progettati dagli Stati Uniti, Inghilterra e Francia per essere capaci di decollare ed atterrare verticalmente come un elicottero affrettandosi quindi a ruotare in senso longitudinale durante la marcia, sfruttando la stessa spinta al fine di massimizzare la propria velocità di spostamento. Una visione del volo, che potremmo individuare come anticipo del concetto dei VTOL con motori orientabili, mai davvero efficiente e che in effetti non portò ad alcun velivolo prodotto in serie, ma di cui il Triebflügel rappresenta, se vogliamo, l’interpretazione maggiormente terrificante. Questo per la posizione della cabina del pilota sopra l’assurda elica gigante, che avrebbe limitato ulteriormente la sua visibilità già minima del terreno posizionato dietro l’aereo durante le suddette manovre, costituendo inoltre morte certa nel caso in cui avesse necessitato di lanciarsi con il paracadute. Appare opportuno inoltre considerare, per un mezzo come questo che avrebbe dovuto essere impiegato in combattimento, il tipo di conseguenze che avrebbero potuto esserci al benché minimo danneggiamento di una sola delle tre “pale” con immediata perdita di controllo e conseguente caduta verso il suolo dell’intero apparato. Niente, nell’effettivo utilizzo dell’intercettore, avrebbe potuto essere automatizzato negli anni ’40 mediante l’uso di un computer o altro dispositivo di assistenza al pilotaggio, tanto che si erano già ipotizzati i probabili e frequenti interventi necessari sui comandi per contrastare la rotazione indotta dall’attrito della parte rotante contro la carlinga, mentre l’assetto necessario a mantenere la portanza sarebbe stato sempre angolato diagonalmente via dal suolo. Tanto che le quattro bocche da fuoco previste, con due cannoni automatici MK-103 da 30 mm e due MG-151 da 20, sarebbero state posizionate in modo angolato, affinché fosse possibile mirare contro i bombardieri senza perdere continuamente quota e ad un certo punto, precipitare autonomamente.
Se effettivamente qualcuno avesse mai pensato di costruire il Triebflügel, appare dunque chiaro come una quantità notevole di problemi necessitasse ancora di essere risolta. Ed è altamente probabile, anche se la guerra fosse durata abbastanza per permetterne il perfezionamento, che le sue prestazioni sarebbero state molto al di sotto dell’idea di partenza, per non parlare dell’eccezionale agilità mostrata dalle “libellule” di Erich von Holst. Risulta altresì valida, d’altronde, la visione secondo cui il curioso velivolo avrebbe assolto pienamente all’obiettivo che i suoi creatori si erano senz’altro prefissati: ossia tenere loro medesimi, per il più lungo tempo possibile, lontani dalla linea del fronte e le spietate trincee, dove forze preponderanti e inarrestabili continuavano ormai a accatastarsi nell’atteso palesarsi dell’ora finale. Aiutando, nel contempo, lo sforzo bellico degli Alleati, mentre fabbriche un tempo gloriose come la Focke-Wulf devolvevano una quantità di risorse sempre maggiori al concepimento di fenomenali bizzarrie, non più utili della nota passione per l’occulto dei gerarchi affini alla visione profetica di un infallibile condottiero. Il cui destino, al termine della terribile fiera di sangue, noi tutti ben conosciamo. Ma non lo stato d’animo sperimentato, come una sorta d’illusione inutilmente autocelebrativa, mentre approvava questo o quel progetto, ciascuno frutto della pura, semplice ed incontrastata filosofia.