Se si sceglie di considerare il minimo componente dell’architettura come il muro, il tetto, il pilastro, le nostre opzioni creative ne verranno conseguentemente limitate. Poiché quale configurazione di edificio può essere significativamente più utile, alla fine, di un semplice cubo con l’ingresso e un appropriato numero di porte, finestre, ambienti dove svolgere l’attività indicata dai suoi committenti originari… Laddove l’effettiva verità della questione, se si osserva da un punto di vista filosofico, è che l’aspetto più minuto per quanto concerne gli edifici, come avviene per ogni altra cosa, può essere individuato nell’atomo stesso, col suo comparto al seguito di microparticelle dalla carica sia positiva che negativa. Non che ad osservare uno degli ultimi megaprogetti completati nell’emirato del Qatar, un paese dall’innovazione urbana molto superiore all’ampiezza dei sui confini, ciò traspaia in modo particolarmente evidente; poiché nel Museo Nazionale completato nel 2019 dopo 19 anni di lavori, l’elemento costituente principale sembrerebbe facilmente individuabile nel disco. Di una pletora di cerchi accatastati apparentemente alla rinfusa, ma che grazie al genio dell’archistar francese vincitore del premio Pritzker, Jean Nouvel, qui plasmano facciate, balconate, tettoie ed abbaini. Ovvero in altri termini, tutto ciò che occorre per dar luogo a un edificio frutto della divisione post-moderna tra la forma e funzionalità, tanto spesso poste in opposizione l’una all’altra nella costante ricerca di un qualcosa di oggettivamente “nuovo”. E sarebbe assai difficile, nel caso specifico, negare tale caratteristica nel qui presente edificio, la cui associazione dichiarata è di natura inaspettatamente mineralogica, ricordando esso nelle proprie forme niente meno che la rosa del deserto, caratteristica formazione mineralogica di cristalli di gesso o barite, appiattiti su di un asse e disposti a ventaglio in una serie di agglomerati radianti. Un ritrovamento particolarmente apprezzato dai beduini che un tempo abitavano queste dune, poiché significava che nei pressi era situata una possibile fonte d’acqua. E che in tal senso vuole simboleggiare il sentimento umano della speranza, intesa come auspicio di un futuro migliore per la nazione sotto il controllo dell’Emiro Tamim bin Hamad Al Thani. Un’associazione tanto stretta, questa tra il potere e la cultura ereditaria di un popolo, già messa in evidenza dalla collocazione del precedente Museo, integrato dal 1972 con il palazzo fatto costruire all’inizio del Novecento dal suo antenato Khalifa bin Hamad Al Thani, doverosamente preservato e incluso nuovamente nell’odierna struttura. Ciò a creare l’impressione dichiaratamente opportuna di un “caravanserraglio per immagini”, come uno spazio chiuso rispetto al calore e il vento del deserto, dove inoltrarsi per scoprire l’opportunità d’introspezione sulle origini del proprio popolo e lo stato attuale del suo presente…
Concepito, all’opposto di un edificio frutto dell’esclusivo calcolo digitalizzato, con l’aspetto esteriore anteposto all’effettivo utilizzo di ciascun singolo ambiente, il Museo Nazionale riesce nonostante ciò ad offrire nei suoi 40.000 metri quadri di spazi abitabili ampi ed utili recessi ove incorporare le sue notevoli collezioni. A partire dai manufatti archeologici di epoca mesopotamica individuati nel 1973-74 dall’inglese Beatrice de Cardi ad Al Da’asa, per cui il primo e coévo museo era stato coerentemente approntato, fino ad oggetti che si estendono dall’era delle guerre tribali ai giorni nostri, passando per i lunghi anni della pesca delle perle nel golfo persico e attraverso ciò la storia naturale di fossili, piante, animali. Con i suoi spazi organici e frequentemente poco prevedibili, implicitamente inadatti ad esposizioni convenzionali dei reperti, il nuovo edificio trae quindi beneficio da un ampio utilizzo dei supporti multimediali. Mediante l’utilizzo di proiezioni, sia interattive che non, che tendono conseguentemente ad ampliare gli spazi utilizzandoli nel modo di un letterale palcoscenico o finestra, su scorci estetici appartenenti ai più diversi contesti situazionali di questa terra e tutto ciò che oggi contiene. Sfruttando in tal modo l’opportunità di mostrare ai visitatori albe, tramonti, antiche carovane o tende che oscillano nel vento, con proporzioni sufficientemente realistiche da trasportare la mente altrove. E senza alcuna concessione in termini d’impronta carbonica, visto come gli spazi ricavati dai dischi di cemento rinforzato in fibra di vetro, tinto del colore dell’arenaria offrano vaste zone vuote e cavità, capaci di creare una massa termica isolante rispetto alla caratteristica arsura del sole mediorientale. Completano l’offerta al pubblico un parco da 112.000 mq con una laguna artificiale e piante native, una sala conferenze con 70 posti, un auditorium con 220, due ristoranti, una caffetteria ed il negozio del museo all’ingresso, configurato in modo tale da ricordare l’interno di una colossale caverna.
Strutturalmente parlando, nel frattempo, il museo è un’opera profondamente innovativa che suscita non poche domande sul metodo impiegato nella sua costruzione. Con evidente ed importante utilizzo dei moderni sistemi di calcolo informatico (ed un software specifico creato ad hoc dall’ufficio di Frank Gehry) ma anche una notevole dose di creatività umana, nella maniera in cui l’assemblaggio radiale ed ortogonale dei singoli elementi costituenti è stato associato ad una struttura di acciaio interna, corrispondente nei fatti allo scheletro invisibile dell’edificio. Con un peso complessivo di 28.000 tonnellate, pari a quattro volte la torre Eiffel.
Oggi gestito, assieme a numerose altre istituzioni della cultura nazionale, dalla sorella dell’emiro Al-Mayassa bint Hamad bin Khalifa Al Thani, il nuovo e principale museo di Doha già ha raggiunto la cifra significativa di 450.000 visitatori l’anno, diventando un punto di riferimento internazionale spesso posto all’inizio delle guide turistiche della regione. E come spesso capita per le grandi opere di questo paese, criticato in molti ambienti per le modalità pratiche impiegate durante la sua costruzione, inclusive di un trattamento eticamente inappropriato della manodopera frutto dell’immigrazione impiegata nel cantiere ventennale, in buona parte di provenienza nepalese ed indiana. Una tendenza locale che nell’epoca successiva ai mondiali di calcio è stata ammessa implicitamente dalle linee guida limitanti varate, proprio dal gabinetto politico dell’emiro, al fine di proibire prassi particolarmente problematiche quali il sequestro del passaporto e la decurtazione dei salari promessi, che più di una testata giornalistica aveva associato a una realistica concezione del concetto di schiavitù moderna.
Luci ed ombre, dunque, e più di un modo d’interpretare una tangibile (gloriosa?) strutturalità eminente. Così come i tratti disegnati dalla luce solare che penetra e s’insinua nell’effettiva e normalmente ben più piccola, ed altrettanto spontanea rosa del deserto. Non che l’associazione metaforica di questo edificio alla sua ispirazione nominale dovrebbe, per quanto possibile, trarci in inganno. Il modo in cui il Qatar si vede è fondamentalmente simile a quello di ogni altra entità nazionale dei nostri giorni: unico e prezioso, per chiunque abbia il… Coraggio di guardarlo oggettivamente. E chi saremmo alla fine noi, per tentare di dargli torto?